Ricordando padre Ernesto Balducci

 

 

 

 

di

 

Rosalba Satta Ceriale

 

 

 

 

Mi porto appresso , da sempre, un’arsura di pace accompagnata, spesso, da  quella indignazione che si ripresenta ogni qualvolta scorgo che il diritto viene messo da parte  per lasciare spazio al privilegio; ogni qualvolta assisto  al tentativo – che spesso riesce - di attribuire un  significato particolare alle parole per confondere il pensiero - che di parole è fatto – e così giustificare atti e comportamenti altrimenti  inaccettabili.

La mia innata voglia di pace mi ha costretto ad osservare il mondo con occhi limpidi… ed al mondo – ai suoi silenzi pesanti come macigni - ho sempre posto attenzione.

Penso , infatti , d’aver succhiato dal latte materno questa voglia di esserci, questo desiderio di giustizia, questo mio scegliere di andare, e di stare, dalla parte degli ultimi : quelli ai quali il diritto viene negato da troppo tempo.

O, forse, ho colto determinati segnali in quei gesti, in quei silenzi, in quegli esempi di vita quotidiana che hanno riempito la mia infanzia prima, e la mia adolescenza dopo.

L’aver vissuto accanto ad un padre-poeta ha fatto sì che imparassi a rivolgere lo sguardo al cielo…ma con i piedi ben fissi sulla terra, affinché non dimenticassi mai che quel  Dio che incontro e perdo e poi ritrovo , abbandona , più spesso di quanto si creda, il suo paradiso per stare accanto ai diseredati, agli oppressi ,  a  coloro che della sua carezza hanno bisogno.  E in questi , Dio si riconosce…

Così nella mia vita ho camminato a lungo.

Le soste lubrificanti e rigneranti nelle oasi ci sono state e ci sono.

Ma  ho percorso, con la mente e col cuore, sentieri tortuosi, salite ripide , sfiorando burroni , rischiando di annegare , di essere sommersa da un oceano di dolore.

Ho, però, sempre guardato avanti, perché nel rimettere insieme i cocci della mia esistenza , e tirando le somme, ho  dovuto riconoscere che era – ed è – più quello che ho ricevuto rispetto a ciò che mi è stato tolto.

Non parlo di cose materiali, di oggetti, di ciò che può essere acquistato o ottenuto in regalo da una sorte più o meno benigna. No. Parlo di incontri. Di quegli incontri che non hanno necessariamente bisogno di una stretta di mano. Parlo di incontri di pensieri, di modo di intendere la vita, di comunicazione di anime.

In mezzo a una miriade di persone brutte dentro, spesso chiuse nella loro disumana indifferenza, protese  ad arraffare ,  impegnate  a ergere muri e stabilire confini, complici nell’ uccidere, nel  minacciare e  nello sporcare il mondo, ho “incontrato”

 - riconoscendole subito – persone straordinarie.

Quelle capaci di restituire significato – e perfino profumo – alla speranza.

Quelle in grado di aiutare la  primavera a ri-nascere anche quando pare che il destino dell’umanità debba conoscere solo il gelo di un inverno interminabile.

Don Mazzolari, don Milani, padre Turoldo, don Tonino Bello, Carlo Carretto, don Ciotti,  don Giuseppe Dossetti, Tiziano Terzani, Raniero La Valle, Ettore Masina, padre Alex Zanotelli, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino…

Ma, sempre, quando ri-penso a queste persone belle , il primo viso che scorgo, in quell’angolo di luce e di colore che mi porto appresso e  dentro l’anima , è quello di Padre Ernesto Balducci…

E’ stato determinante nella mia crescita.

Ancora oggi, quando nell’osservare la realtà rischio di cadere nelle maglie dello scoramento, quando mi pare che non ci sia più spazio nemmeno per i sogni, e l’anima tende a raggomitolarsi e a farmi male…risfoglio la sua vita, ripenso alla sua lotta, riascolto la sua  indignazione urlata al cielo e alle viscere della terra… affinché sentissero santi e uomini, angeli e demoni.

Ripenso al suo essere uomo del Vangelo. Un Vangelo vissuto e proposto e riproposto, quotidianamente.

Lo rivedo, in una della sue ultime  omelie , ricordare quanto fosse e sia importante “porre il centro di sé , fuori di sé” per riempire di significato la propria vita, per cedere spazio, nella condivisione, agli emarginati, per crescere davvero, per irrobustire la coscienza e, perciò, il mondo.

Riascolto il suo dolore – immane –per quella assurda guerra nei deserti del Medioriente che ( ne era certo fino all’ultimo!), non sarebbe mai potuta avvenire e che Mai avrebbe dovuto aver inizio perché avrebbe significato - così come è accaduto - la morte del diritto e l’inizio di una guerra infinita, globale, insensata. Guerra che avrebbe inevitabilmente dato “legna e cibo” al terrorismo.

 

Grazie a lui ho imparato a leggere i libri, mai scritti, dei vinti.

A schierarmi accanto agli obiettori di coscienza.

A riconoscere gli errori e gli orrori fatti in  nome di un Dio, che invece soffriva e soffre e , per colpa dell’uomo, ha spesso grondato sangue.

Ho imparato a dire No , all’occorrenza.

“Un NO di una persona indignata - amava ripetere – è straordinario…come un Si di una persona innamorata.”.

E il suo No alla guerra, alle atrocità, fu chiaro e forte. Sempre.

Così come, per evitare la supremazia di una religione sull’altra, amava ricordare che

“le religioni devono imparare a  confrontarsi  non sull’asse verticale delle loro certezze , ma sull’orizzontale dell’uomo”.

 

Caro, carissimo padre Ernesto Balducci…

Hai scelto – quante volte? - di “sporcarti” le mani e di riempire di piaghe i tuoi piedi, per contribuire a costruire sentieri di libertà e di vita.

Tra le altre cose sei stato capace  di ri-avvicinare la Chiesa  - nonostante il “sedimento oscuro lasciato nella memoria delle coscienze da precisi fatti storici” - all’uomo, rendendo l’ingresso partecipativo, emozionante, coinvolgente.

 

“Il giorno della tua morte” , racconta Ettore Masina nel suo “Diario di un cattolico errante” riferendosi a se stesso e alla moglie Clotilde, “non siamo riusciti a piangere. E’ come se ci fosse caduta addosso una febbre improvvisa…”.

Io vivo ancora oggi – a distanza di oltre  quindici anni  - la fase dello stupore.

 

L’altro ieri, parlando di Balducci con don Salvatore Bussu che, per oltre vent’anni è stato direttore del settimanale “L’Ortobene” , sono venuta a conoscenza del fatto che qualche giorno prima del suo volo terreno, Balducci gli mandò, perché venisse pubblicato, un articolo.

L’articolo è , adesso, qui, tra le mie mani. Insieme a ciò che scrisse, alcuni giorni dopo e a un anno dalla sua morte, don Bussu per ricordare la sua  figura.

Mi piace porre come conclusione di questo mio ricordo, oltre agli articoli citati, anche alcune considerazioni tratte dal libro di di Ettore Masina , “Diario di un cattolico errante”.

Lo faccio perché ho voglia di ricordare un compagno di viaggio.

Lo faccio con la riconoscenza dovuta a un profeta.

Lo faccio con la  speranza che altri, attraverso Internet, possano leggerli e trovare  la stessa linfa che adesso, a lettura appena terminata, scorre nelle mie vene.

 

(Da “L’Ortobene” del 3 maggio 1992)

 

 

 

 

 

Era un toscanaccio che scandalizzava i benpensanti.

 

L’amico padre Ernesto Balducci

 

 

di

Salvatore Bussu

 

 

 

A distanza  di poco più di due mesi dalla morte di padre David Maria Turoldo, se n’è andato anche lui, padre Ernesto Balducci.

Vittima d’un pauroso incidente stradale alla perferia di Faenza, mentre ritornava alla Badia Fiesolana di San Domenico, dopo aver tenuto una conferenza sulla pace , è morto sabato, 25 aprile, nel reparto di Neurianimazione dell’Ospedale “Bufalini” di Cesena.

Se n’è andato così un altro profeta della Chiesa e della cultura italiana.

Sia padre Turoldo che padre Balducci mi erano stati vicini dopo i fatti di Badu  ’e Carros che mi avevano visto  umile e quasi inconsapevole protagonista di un gesto di solidarietà verso alcuni brigatisti che facevano lo sciopero della fame per ottenere più umane condizioni di vita nel supercarcere nuorese.

Un gesto che aveva fatto scandalo.

Allora , se padre Turoldo , attraverso l’avvocato Giannino Guiso, mi aveva invitato a  parlare alla Nuova Corsia di Milano della quale egli era l’anima, padre Ernesto Balducci aveva scritto in mio favore un articolo bellissimo sul giornale genovese “Il SecoloXIX”.

Ultimamente , proprio qualche giorno prima dell’incidente,  padre Ernesto mi telefonò, chedendomi il nostro numero di fax.

Mi disse :

 

Ho appena letto il tuo articolo su “L’Ortobene”, abbastanza critico sul documento del Consiglio permanente della Cei a proposito dell’unità dei cattolici in politica. Sei stato bravo: da te non mi aspettavo una posizione diversa. Ti chiedo il numero del fax, perché ti sto mandando un mio intervento.”.

 

Ahinoi! Se il mio articolo poteva suscitare le reazioni dei benpensanti del nostro mondo ecclesiale, la pubblicazione dell’intervento di Balducci poteva non solo far scandalo, ma far arrivare qualche sanzione dall’alto.

Non l’ho pubblicato, ripromettendomi di parlarne col padre per trasformarlo in intervista ed eliminare , così, alcuni passaggi non accettabili. Non ho fatto a tempo e così l’articolo, da me consegnato ad un amico della redazione de “La Nuova Sardegna”, è stato pubblicato da quel quotidiano domenica scorsa.

Ma adesso che padre Balducci è morto, trattandosi forse di una delle sue ultime cose scritte, lo riprendo qui, nella sede naturale alla quale era destinato, pregando le anime candide che si scandalizzano di tutto – non pensando che un giornale cattolico deve accettare anche posizioni critiche verso gli uomini di chiesa in questioni opinabili – pregando, dicevo, quelle anime candide a…non leggere l’articolo.

Padre Balducci era grande - e avrà certamente un posto di rilievo nella storia del cattolicesimo  di questi ultimi cinquant’anni -, nonostante le sue intemperanze di linguaggio, ben più feroci quando parlava a braccio nelle sue conferenze nelle varie parti d’Italia.

Era un toscanaccio innamorato della Chiesa. Come lo era Turoldo e , più indietro, Giogio La Pira, don Milani, don Mazzolari, e ancora più in lontananza, Rosmini, che ebbero molti problemi con la Chiesa. ..

Il cardinale Carlo Maria Martini, al funerale di padre Turoldo( che pure in vita, in una famosa poesia per il sacerdote Ernesto Cardenal, aveva inveito contro la massima autorità della Chiesa) quasi in dialogo col defunto, ha detto, tra l’altro: “E’ difficile definirti, pur se qualcuno l’ha tentato: poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini. A me pare che ciscuna di tali definizioni ti stia stretta, perché la tua individulalità era prepotente ed imprevedibile.”.

 

E ricordava il suo amore alla Chiesa, l’affetto a Maria : “Cantare Maria lo sentivi come tua vocazione non solo come frate servita, ma pure come tua vocazione di cristiano.”.

Non conosco che cosa ha detto lunedì l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Piovanelli, al funerale di Padre Ernesto Balducci.

Non penso , comunque, che si sia discostato di molto da quanto ha detto Martini per Turoldo. I sentieri su cui camminavano non erano diversi.

 

 

 

 

 

Da “L’Ortobene” del 3 maggio 1992

 

 

 

Un intervento di padre Ernesto Balducci, scritto per “L’Ortobene” alcuni giorni prima di morire

 

Modi diversi di amare la chiesa

 

 

di

padre Ernesto Balducci

 

 

Ci sono tanti modi di amare la Chiesa.

C’è, ad esempio, quello che si risveglia, quasi per un appuntamento prestabilito, nelle circostanze elettorali e si esprime invocando  l’unità politica dei cattolici; e c’è quello che si esprime con lo zelo per l’immagine della Chiesa – segno e strumento di salvezza - dinanzi alle coscienze ( come ha fatto don Salvatore Bussu).

E’ da tempo che io diffido della prima forma di amore, proprio perché essa è inconcilibile con l’altra, che invece ha sicuramente il suo fondamento nella fede.

Non mi vergogno di dirlo: quando, alla vigilia delle lezioni, mi avviene di leggere certe autorevoli dichiarazioni a nome dell’episcopato, provo un moto di indignazione.

Due le ragioni.

La prima riguarda, appunto , la premura del rapporto tra la chiesa e la coscienza, una premura che ho maturato in quasi mezzo secolo di quotidiani colloqui pastorali con le persone più disparate. Nell’intento  di facilitare l’incontro tra la coscienza e la parola di salvezza, faccio di tutto per sfatare il pregiudizio che la Chiesa, col pretesto del Vangelo, cerchi ben altro.

E lo devo fare senza eludere l’evidenza dei fatti.

Ad esempio, cinquecento anni fa, essa cercò la dilatazione del suo dominio teocratico fin oltre l’Atlantico, a costo dello sterminio di decine di milioni di Indios; poco più di un secolo fa cercò di preservare, lanciando scomuniche, il suo potere temporale ; dopo quest’ultima guerra ha cercato di mettere in salvo i privilegi concordati ottenuti da Mussolini.

I pregiudizi delle coscienze non sono dunque fondati su malizia, ma su precisi fatti storici che hanno lasciato nella memoria comune un sedimento oscuro.

Che fatica spezzare questo deposito calcareo, per far emergere l’immagine di una Chiesa di niente altro desiderosa che dell’unità del genere umano!

Le dichiarazioni elettorali dei Vescovi sono disastrose, dal punto di vista dell’annuncio del Vangelo, e intanto gettano ombra sulle nostre quotidiane fatiche pastorali.

Come sarebbe bello se i vescovi si decidessero a parlare di Vangelo, come chiedeva Papa Giovanni, e solo di Vangelo, liberi, quanto al resto, di avere le loro opinioni e di difenderle come si difendono le opinioni, con la laica fatica del buon uso del raziocinio!

Il secondo ordine di ragioni, riguarda il linguaggio a cui i vescovi sono costretti quando entrano in un campo che non è loro.

Riguardo le dichiarazioni del cardinal Ruini, si possono difendere due interpretazioni : ha voluto soltanto invocare l’unità dei credenti attorno a dei valori cristiani; ha voluto invocare la loro unità attorno alla DC.

Il guaio è che questa ambiguità non è dovuta a un’imperizia nell’espressione della propria intenzione, è dovuta alla necessità di camuffarla.

L’intenzione era di sostenere la vittoria di un partito, l’ambiguità è nata dal fatto che un simile invito, non rientrando nelle competenze di un vescovo, deve essere formulato in modo da lasciare coperta l’intenzione. E così i giornali, che hanno letto nelle parole di Ruini un appello a far quadrato attorno alla Democrazia Cristiana, hanno detto il vero  ma hanno detto il falso.

Di chi la colpa?

Dalle mie parti, per definire ambiguo un certo linguaggio, si dice che esso “è un linguaggio da preti”.

Il linguaggio da preti è quello che contrasta con quanto ci è stato tramandato : il vostro parlare sia si, non no, perché il resto viene dal maligno.

Che, in questo caso, il resto venga dal maligno, io non ho dubbi.

Un solo esempio: ci si è chiesto di restare uniti attorno ai valori cristiani.

Ma quali sono i valori cristiani?

Io ne conosco uno che sta sopra tutti: la pace, il ripudio della violenza.

Ebbene, il partito caro al cardinal Ruini che ha fatto il 17 gennaio 1991?

Ha votato per l’intervento armato, contro le stesse indicazioni del Papa.

Io so che quando cerco di mettere in conto a qualcuno i 300.000 morti nei deserti del Medioriente, devo per forza metterli in conto anche della DC.  

Se avessi appoggiato quel partito, io oggi non dormirei tranquillo.

Liberi gli altri cristiani di pensarla diversamente, ma lascino a me questa gelosa premura per la mia coscienza.

 

 

 

Da “La Nuova Sardegna”  del 29 dicembre 1993

Pagina della “Cultura”

 

 

 

Ricordando padre Balducci: impegno assoluto per l’uomo contro ogni forma di sopraffazione

 

Ernesto , il sacerdote cospiratore.

 

 

di

don Salvatore Bussu

 

 

 

A poco più di un anno dalla sua tragica morte, padre Ernesto Balducci non cessa di interessare e far discutere il mondo della cultura, sia all’interno del mondo ecclesiale, sia fuori le mura, in terra laica, dove era perfettamente inserito, senza che ciò significasse - come egli stesso diceva – “un rigetto” della sua missione e della sua coerenza di ministro del Vangelo.

Chi ha letto i suoi scritti, e più ancora chi lo ha ascoltato in convegni,conferenze, trasmissioni televisive, sarà rimasto più volte sconcertato di fronte a certe sue affermazioni.

Come il suo amico padre Davide Maria  Turoldo, padre Balducci era un provocatore, usava la penna come una frusta.

Parlando aveva il dono di turbare, di scandalizzare - con raffiche di paradossi -, le pie orecchie dei devoti, soprattutto quando metteva in evidenza le toppe che spesso appaiono sul vestito della chiesa.

Eppure non era un uomo contro, un uomo del dissenso.

Solo chi è estraneo al Vangelo – disse , nell’omelia alla messa del trigesimo della morte, il Generale dei padri Scolopi, ai quali apparteneva padre Ernesto -, solo chi è estraneo al Vangelo, ha potuto definirlo uomo del dissenso. Il Vangelo, invece, del quale quotidianamente si nutriva, lo spingeva alla libertà del profeta : parlare dovunque, collaborare con chiunque, senza lasciarsi turbare dalla paura della strumentalizzazione. Con la consapevolezza che gli veniva da una vita intensamente vissuta in prima linea, poteve dire di sé: “Sebbene mi trovi in zona laica, non mi sposto di un capello dal mio asse evangelico.”.

E’ questo il segreto della sua fedeltà , del suo amore per la Chiesa nonostante tutto; il segreto della sua eccezionale capacità di parlare all’uomo, a tutti gli uomini, specie ai privilegiati del Vangelo, senza schematismi preconcetti.

Appunto perché in sintonia col Vangelo, padre Balducci era in sintonia con le istanze più profonde dell’uomo, “dell’uomo planetario”, come lui soleva chiamarlo in quella sua capacità tipica del profeta di rendere reale l’utopia.

Padre Balducci aveva riposto “il suo momento essenziale - sono parole sue - nel rapporto con la parola di Dio e col suo annunzio.”.

 

Padre Ernesto Balducci era nato  a Santa Fiora, un paese di minatori sulle pendici del monte Amiata, in provincia di Grossetto.

A dodici anni ( il genitore aveva perso il lavoro) , lasciò la famiglia per andare a lavorare presso un fabbro-ferraio, Manfredi, “anarchico e perseguitato dal fascismo”.

Ma nel novembre di quello stesso anno - 1934 – gli Scolopi gli offrirono un posto gratuito in seminario.

“Quando comunicai a Manfredi che il giorno dopo sarei partito per il collegio degli Scolopi - ricorda padre Ernesto Balducci in “Il cerchio si chiude”-  egli mi mise le mani sulle spalle e mi disse : “Non ti lasciare imbrogliare dai preti!”.

Trent’anni dopo, quando i giornali parlarono di me, condannato in tribunale per la difesa dell’obiezione di coscienza, mi trovavo al cimitero, dinanzi alla lapide di mio padre.  Non avevo  più rivisto Manfredi. Mi si avvicinò, mi toccò la spalla e mi disse, come se ci fossimo lasciati il giorno prima : “Ernesto, non ci sono riusciti!”. La sua fierezza mi toccò nel profondo come una benedizione di Dio.”.

Per Balducci, l’estrazione proletaria non rappresentò mai un semplice e puro dato anagrafico, ma coordinate fondamentali del proprio itinerario culturale e spirituale. Alle sue origini attribuiva la sua maniera di porsi davanti ai problemi. Parlando di don Lorenzo Milani, suo coetaneo, che proveniva da un ambiente alto-borghese , sentiva la necessità di sottolineare la differenza: “ La sua scelta evangelica gli ha fatto fare una calata  a picco  - per così dire -  nel mondo dei poveri. (…) Mi sono domandato se , sul filo autobiografico, la mia non fosse una dimensione opposta. La famiglia in cui sono nato, che era omogenea in maniera perfetta al contesto delle altre famiglie, è vissuta, fino a che non l’ho lasciata , ai margini tra la miseria e la povertà. (…). L’altro aspetto che mi pare mi differenzi da chi parla dei poveri essendo entrato dall’esterno, è la memoria di una trama di felicità, di compensazioni interiori… di una bellezza fiabesca, vorrei dire. Quando oggi leggo che i campesinos del Brasile sono gente allegra, non mi stupisco molto. Io so – cosa che forse a don Milani sfuggiva – che i poveri sono capaci di grande allegria. “.

E’ una chiave di lettura  che ci aiuta a comprendere le sue scelte di campo così radicali e conseguenti  che hanno caratterizzato la sua opera e, in particolare , la fase finale della sua vita  : soprattutto dopo quella metamorfosi avvenuta in lui nel momento in cui riannoderà i fili della comunicazione e del rapporto con le sue origini e la sua gente.

Una metamorfosi che egli chiamerà “svolta antropologica”.

Le mie radici - scrive Balducci – son rimaste in quell’isola sommersa in cui presi ad elaborare, attingendo alla terra dei padri , la trama simbolica del mio sogno,  prima di fare i primi passi nella storia. Anche quando ho messo piede nei palazzi, fosse il Quirinale o il Vaticano,  o mi sono seduto in cattedra su tribune prestigiose, mi sono sentito sempre altro , mi sono sentito guardato, mentre mi -intrattenevo con la gente del potere o della cultura dominante, con un occhio segreto che mi  teneva sotto controllo, impedendomi di civilizzarmi fino in fondo.

E bene hanno fatto gli uomini del potere  a non fidarsi di me, che sono sempre stato un cospiratore, ostinatamente fedele a un sogno impossibile.”.

 

Balducci dialogava con  tutti, anche in tempi in cui i muri e le barriere erano invalicabili. Lo ricorda anche l’avvocato Giuseppe Melis Bassu, in una lettera che mi scrisse qualche anno fa : “Balducci era venuto ad un dibattito di Ichnusa, trenta anni or sono  a Sassari – lo ricordo come fosse oggi -.  Mi aveva fatto una grande impressione , ed era stato il primo dei nostri invitati a dirci una cosa di cui  andavamo in qualche modo orgogliosi : che riuscivamo a far dialogare cattolici e marxisti, in anni e in un ambiente torpido e paludoso come quello sassarese, in cui non solo era inconcepibile, ma ricadeva a carico  di chi se ne faceva iniziatore , l’accusa di “utile idiota”.

 

Ricordando l’amico Turoldo, padre Ernesto scrisse :

“Quando penso alla grazia di Dio, (…) penso sempre a dei volti di carne, a presenze umane che, per quanto mi riguarda , hanno dato trasparenza ed efficacia all’invisibile regno di Dio. Ne ho riservatissimi, ma alcuni posso dirli perché di dominio pubblico : Giorgio La Pira , Primo Mazzolari, Lorenzo Milani. Ora ne aggiungo un altro : Davide Maria Turoldo. Che, come me , è entrato nel tirocinio della vita di monaco e di sacerdote, venendo dal mondo degli ultimi. (…)E’ questa la prima fedeltà di Turoldo : la fedeltà delle origini.”.

 

Turoldo aveva detto : “ Io mi glorio di essere figlio di povera gente e ne sono così contento che non ho mai tagliato con il crinale da cui sono partito e a cui sono sempre ritornato…”.

Come Turoldo, perciò, anche Balducci si sentiva sovranamente libero e si metteva senza etichette di fronte all’altro.

“Non sono né di destra, né di sinistra : sono un sacerdote  e sono là, ovunque c’è un uomo braccato, ferito, offeso. Sto dalla parte di quell’uomo senza sapere lui da che parte sta.”. 

 

 

 

 

 (Articolo scritto da E. Masina  per il quotidiano “Il manifesto”)

 

 

 

Da “ Diario di un cattolico errante” di Ettore Masina

 

25 aprile 1992 . Addio a Balducci

 

 

di

Ettore Masina

 

 

“Balducci dopo Turoldo, in neppure tre mesi.

Diversissimi fra loro , oggi , quasi all’improvviso, ne scopriamo somiglianze profonde.

Tutti e due nati in paesi di poverissima gente , e proprio per questo preservati da quella sorta  di soave alienazione che quasi sempre coglie sacerdoti e frati entrati

– come loro – ancora adolescenti in seminario. (…). Burberi, (eppure sempre più spesso negli ultimi anni con lampi  di tenerezza) , hanno continuato a somigliare a quei padri minatori o contadini ai quali profondissimamente rimanevano legati quasi a farsi perdonare di essere andati tanto lontano.

“Lontano” era per loro la parola che non aveva più significati geografici. 

L’uno e l’altro amavano il loro chiostro.

L’amore di Ernesto per la Badia Fiesolana, il  suo volervi tornare ogni sera, era causa di bonario dileggio da parte dei suoi amici. 

Ma i conventi non avevano clausura : vi irrompevano comitive di inquieti pellegrini o liete brigate conviviali o, quasi di nascosto ,  ombre gementi nella tenaglia rovente di qualche tragedia . 

Ma soprattutto vi irrompeva la Storia .

Nella prefazione a un mio libtro , Balducci scrisse di aver visto , nel noviziato delle Piccole Sorelle , ad Assisi , accanto alla cappella ,  un grande planisfero che occupava quasi tutta la parete.

Come meglio esprimere l’idea che la contemplazione va vissuta lungo le vie del mondo? Da allora anch’io ho tolto  dalla parete della mia stanza, le immagini dei Santi. Vi campeggia una grande carta geografica, in modo che quando mi sveglio, ho sotto gli occhi tutti i continenti.  Evito così il pericolo di tenere troppo in su la mia anima e l’avvezzo a camminare con i piedi sulla terra.”.

 

Qualcosa del genere avrebbe potuto scriverla anche Davide (…).

Sulle ali della poesia l’uno,  l’altro su quelle di una straordinaria erudizione e di una razionalità che non dimenticava mai il sentimento, unirono alla memoria della piccola patria paesana, il profondo coinvolgimento nelle questioni della patria “planetaria”.

Con i loro scritti e le loro omelie, gridavano alto : ogni guerra, dovunque combattuta , ferisce l’umanità; ogni violenza fatta all’ambiente aggredisce il futuro di tutti i bambini della terra.(…).

Turoldo e Balducci ( condannato, quest’ultimo, venticinque anni fa per vilipendio delle Forze Armate) diventarono punti di riferimento per il movimento per la Pace.  Nelle difesa della pace – e, più in generale , dei diritti dei poveri -  avevano  imparato dal loro amico  La Pira e da Papa Giovanni a scorgere volti di fratelli oltre ogni barriera .  E coerentemente a ciò, avevano sempre sostenuto la riflessione e le scelte dei loro amici che nel Pci  di Berlinguer avevano individuato, al di là dell’ideologia , una forza al servizio della democrazia, della giustizia e della pace . 

Per il rifiuto di quel “cascame ideologico dei cattolici che era l’anticomunismo” – sono parole sue – Balducci patì una specie di permanente “inquisizione” ecclesiastica.

Ma, come Turoldo ,  non volle mai essere nella Chiesa un uomo di rottura : i no  di Balducci e di Turoldo non erano mai diretti alla comunità in quanto tale : non parlavano della Chiesa usando la terza persona singolare. Non si degradavano mai nell’amarezza…”.

 

 

Sempre da “Diario di un cattolico errante” di Ettore Masina

Pagina 39.

 

5 settembre 1992

 

In questi ultimi mesi ho commemorato Balducci a Frascati, a Trento, ad Aprilia, a Cesena, a Vicenza, nelle sezioni romane del Pds Nomentano e Colli.

Questa sera, a Fabriano.

Provo un disagio crescente, una specie di ribrezzo per quello che sembra professionismo da pompe funebri.

Parlare di un maestro è doveroso; ma tanti altri possono farlo.

Tuttavia,  questa catena di necrologi non è senza dolcezza.

Dovunque vado, scopro nuovi particolari sulla statura di Balducci.

Non la mitologia dei fans, che egli detestava ,  ma tanti episodi di tenera carità nei confronti di vecchi e vecchie ,  di disagiati psichici,  di disperati ,  di non-credenti  che gli chiedevano una speranza .

Dietro l’aspetto burbero dell’uomo, io e Clotilde  sapevamo bene quanta capacità d’amore si nascondesse.

E’ nei nostri ricordi più cari l’invito che ci fece a visitarlo  a Santa Fiora, il suo paese natale ; e come egli ci portò, quasi per mano , a conoscere la realtà della sua infanzia; e il coro dei minatori invalidi per silicosi ai quali egli ,  in un’osteria in cui nessuno si meravigliava di vederlo entrare ,  chiese di cantarci “Maremma mia”.

Ho conosciuto Balducci quando io ero poco più che un ragazzo e lui era un giovane sacerdote, più o meno quarant’anni fa , alla Corsia dei Servi di Milano , dove lui veniva, chiamato dall’altro grande amico , suo e mio , padre Davide.

Dapprima mi risultò antipatico .

 Soprattutto nei dibattiti, mi pareva troppo sicuro e della sua fede e della sua teologia; troppo orgoglioso della sua sterminata cultura; e del resto anche lui, Balducci , ha detto una volta che “la mia impostazione culturale era di tipo astratto”.

Ma se il nostro primo rapporto fu di  riluttante discepolato da parte mia, ammirato della sua scienza assai più che del suo carattere , e di una certa condiscendente attenzione da parte sua , i nostri legami andarono rinsaldandosi  trent’anni fa in quella meravigliosa epoca che fu il pontificato di Giovanni XXIII e poi il Concilio Vaticano Secondo .

Si sviluppò allora, anche in Italia , un movimento di sorprendente vastità in cui i cattolici – laici e preti e anche qualche vescovo e persino qualche cardinale – scoprirono affinità , si legarono in inedite amicizie, presero comuni impegni : oserei dire  che decisero , decidemmo , di giocare d’ora in poi , la nostra vita a servizio di un Vangelo  di giustizia e libertà.

La Valle , Pratesi , Zizola , io ( per non parlare che dei giornalisti…)  e tanti altri laici, ci trovammo subito accanto a Balducci e Turoldo…

La nostra amicizia crebbe con il passare degli anni, in base alle prese di posizione comuni, che spesso ci mettevano in contrasto con l’ establishment ecclesistico e con il potere di regime. E però Balducci, definito in quasi tutti i necrologi “uomo di dissenso” , in realtà non fu mai tale.

Il dissenso non era una sua vocazione  : la sua vocazione era quella di scoprire, nei drammi della Storia , il passo del Cristo che torna ; era quella  di annunziarne il Vangelo sine glossa, nella sua interezza e nella sua audacia.

Erano dunque gli altri, gli avari dispensatori di una Parola di Dio estenuata dalla prudenza umana, che erano in dissenso con lui . Balducci , anzi , fu uomo di grande capacità di dialogo (…).

Lo odiarono soltanto alcuni ottusi caporali pervenuti a posti di rilievo in virtù del loro conformismo.

 

 

 

Nel 2005, ordinai via Internet, dopo aver letto ne "L’Unità" un articolo che ne consigliava l’acquisto, il libro di Raniero La Valle "Prima che l’amore finisca".

Uno di quei libri da tenere sempre a portata di mano .

Terminata la lettura scrissi , d’impeto, la recensione ( che si trova in questo sito nella sezione "Articoli –Recensioni").

Vengono fuori , dal bellissimo libro di R.La Valle, tante belle persone .

Tra queste c’è anche padre Ernesto Balducci.

Eccone alcuni stralci.

 

 

 

Da "Prima che l’amore finisca" di Raniero La Valle

 

Il pacifismo della ragione e le ragioni della guerra.

 

Perché l’impensabile è avvenuto?

Pochi sono disposti ad ammetterlo, ma il centro della vita di padre Ernesto Balducci, lo scolopio fiorentino che è stato uno dei leader più ascoltati del cattolicesimo italiano della seconda metà del Novecento, era la liturgia.

E non era solo il centro della sua vita, ma anche della sua irradiazione pubblica, della sua straordinaria popolarità.

Benché la sua presenza sia stata in gran parte una presenza civile, secolare, nei luoghi e nelle culture di tutti, la sua vera identità, la sua dimora, il fondamento del suo pensiero, stava nell’assemblea liturgica domenicale, che infatti mai disertava, alla Badia Fiesolana.

Ed è nelle omelie che vi pronunziava che si può trovare il livello più profondo di ciò che ha inteso trasmetterci.

In quelle omelie Padre Balducci, così come il suo amico padre Turoldo, ha svelato il volto di un Dio inedito, che non abita nei luoghi inacessibili del potere, che è immerso nella storia degli uomini, la cui stessa parola va letta non nelle categorie codificate della religione, ma nella sapienza misurata alle urgenze del tempo.

Nell’omelia di una prima domenica di Avvento, il 28 novembre 1982, egli enunciava una sorta di principio metodologico della sua riflessione sulla Scrittura : diceva di voler "liberare la parola del Signore da quelle sistemazioni immaginative e concettuali nelle quali ci era stata tramandata, applicandola immediatamente ai problemi del nostro tempo, saltando a piè pari quello che si riteneva la sapienza della tradizione.".

Scelta incauta , se la tradizione è anche la Scrittura "che cresce con chi la legge" come ormai sappiamo da Gregorio Magno, e se nel corso del tempo, come disse Papa Giovanni in punto di morte, "non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio", sicché siamo beneficiari di una sapienza accumulata.

Ma la sua , spiegava Padre Balducci, "non era una scelta soggettiva, arbitraria; è un doveroso sforzo di vivere con i piedi sulla stessa Terra su cui vivono gli uomini, di avere davvero, senza zone di immunità, senza presuntuose evasioni , lo stesso carico di speranze, di angosce degli uomini del nostro tempo, e a partire da questa immersione, senza ciambelle di salvataggio, interpellare quella parola che nell’apriori della fede è parola di sapienza perenne per vedere come essa risuana al nostro cuore, al nostro spirito stretto nella morsa delle contraddizioni in cui l’uomo si trova.".

Perciò queste contraddizioni erano tutte convocate, talvolta in carne ed ossa, nell’assemblea domenicale, come fu fino all’ultima omelia balducciana , quella della Pasqua 1992, che restò incompiuta , perché il seguito ne fu affidato da Padre Balducci all’indio Ajro Agudelo , una delle vittime, dato che quell’anno nella celebrazione pasquale egli aveva voluto conficcare il ricordo dei cinquecento anni dalla conquista dell’America : "un grande crimine che noi abbiamo commesso con tutte le memorie pasquali nella mente, un crimine contro i poveri della Terra, innocenti , che sono stati massacrati da noi.".

E tuttavia non bastava questo rapporto dirompente con la Scrittura per discernere il volto di Dio.

Occorreva mettersi nel luogo dove la violenza è abolita dall’amore, dove viene eliminata "la stessa idea di nemico".

Diceva padre Balducci il 23 febbraio 1992, nell’omelia dedicata alla "non-violenza". "Se facciamo questo realizziamo, in un solo momento , la duplice scoperta : quella del mistero umano e quella del mistero divino.

Solo i non-violenti scoprono il mistero dell’uomo…l’altra scoperta è la scoperta di Dio perché, come più volte dico , Dio non si scopre a qualsiasi livello della nostra esperienza, si scopre scendendo qui.

Matteo aveva detto : "Siate perfetti come il padre che è nei cieli.".

In questo brano Luca dice:

"Siate misericordiosi come è misericordioso il padre vostro" ; conoscere Dio significa conoscere, per averla vissuta , la misericordia.

Chi si conosce non-violento, mite, conosce Dio.

In quel momento è la rivelazione di Dio.

Non si esce da questa regola.". (…)

A che punto siamo.

Oggi a che punto siamo?

Siamo in un punto tra un’aurora che abbiamo vissuto e una notte che ci è piombata addosso. Nel tempo della nostra vita , a metà del secolo che si è chiuso, abbiamo avuto un’irruzione messianica, una inaudita novità, che è stato il momento della fine della Seconda guerra mondiale e dell’inizio di quella che doveva essere una società nuova, che licenziava gli Imperi, metteva al bando la guerra e ricostruiva il diritto; un momento in cui si è sognato che si potessero egualmente affermare per tutte le persone – uomini e donne - e per tutte le nazioni – grandi e piccole - diritti inviolabili, inalienabili , universali; un momento in cui è sembrato veramente che la storia del diritto arrivasse a uno dei suoi apici .

Dopo questa alba di giustizia abbiamo avuto vincende alterne, difficili , controverse, rischiose – abbiamo addiritura rischiato l’olocausto atomico - ma adesso, mentre ci addentriamo nel nuovo millennio , è certamente , di nuovo , il momento della notte.

Ed è il momento della notte, perché quello che è entrato in crisi, in una crisi molto profonda, è precisamente il diritto : una crisi per la quale si può quasi dire che siamo oggi senza diritto.

Padre Balducci ha fatto in tempo a vedere insorgere questa crisi, anzi , ha vissuto drammaticamente il rovesciarsi del diritto nel suo contrario proprio nell’ultimo sprazzo della sua vita . E ne aveva predetto gli sviluppi, quando in un’omelia per l’Avvento, aveva detto che "un amore per la giustizia che prescinda dalla pace diventa inevitabilmente terrorismo. Ma un amore della pace senza giustizia diventa la menzogna insediata nel mondo.".

Oggi noi siamo appunto a questo : da un lato c’è il terrorismo, dall’altro c’è la menzogna al governo del mondo.

Ambedue intrisi di sangue, ambedue responsabili del passaggio epocale dalla società globale alla guerra globale; il loro coniugarsi segna il nostro scacco, lo scacco di padre Balducci, sicché apparentemente non ci resterebbe altro da fare, come Ernesto scriveva alla fine della guerra del Golfo, "se non metterci a sedere accanto alle vittime.".

La guerra del Golfo.

Naturalmente non è così , non è solo questo che ci resta.

Ma per capire che cosa è accaduto, bisogna partire dall’ultima grande battaglia pubblica di padre Balducci, che è stata appunto quella contro la guerra del Golfo. Perché è lì che padre Balducci ha perduto, come del resto tutti noi; ma tanto più cocente per lui fu la sconfitta, perché fino all’ultimo non aveva creduto alla guerra. Aveva detto che quella guerra non ci sarebbe stata .

E, anzi, aveva detto molto di più.

All’inizio della crisi apertasi con l’invasione del Kuwait, nell’agosto del 1990, egli aveva preso una posizione addiruttura euforica, sbagliando diagnosi : infatti nella risoluzione dell’ONU del 26 agosto 1990, che intimava il ritiro dal Kuwait, e che poi gli Stati Uniti avrebbero usato come legittimazione della guerra , egli aveva visto un fatto positivo, il "primo vagito" della comunità mondiale.

Il partus masculus non era ancora avvenuto, ma quella risoluzione dell’Onu lo preannunciava : la nascita di una vera comunità mondiale dall’involucro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite era ormai imeluttabile, perché un nuovo ethos, l’ethos cosmopolitico, aveva fermentato nel profondo della coscienza collettiva.

Quell’ottimismo , ben presto , doveva rivelarsi infondato, perché in realtà gli Stati Uniti e l’Inghilterra non pensavano altro che a fare la guerra, con la copertura dell’ ONU , e l’Unione Sovietica di Gorbaciov e di Primakov era ormai troppo debole per impedirlo.

E tuttavia, in tutto il corso della crisi, e fino all’immediata vigilia del bombardamento di Bagdad, padre Balducci sostenne disperatamente la linea che la guerra era impossibile, addirittura impensabile.

Il 9 gennaio 1991 scriveva sull’Unità: "Sono pessimista ma spero ancora.".

Sperava ancora che il Consiglio di Sicurezza decidesse "altre misure diverse dall’azione militare" perché "una guerra nel Golfo sarebbe l’affossamento definitivo di una istituzione – l’ONU – generata dalla volontà di pace dei popoli, vincolata dal suo statuto all’esclusione della guerra come strumento di giustizia e diventata - questa sarebbe la verità – strumento legale di illegitimità.".

Ma mentre i bombardieri americani rullavano sui ponti delle portaerei, quella di padre Balducci, più che una speranza motivata era ormai un esorcismo contro la guerra.

Sicché quando poi la guerra sopravvenne davvero, padre Balducci ebbe una reazione di "prostrazione" da un lato, e di "indignazione" dall’altro, parlò di "sconfitta della ragione", gridò a una "civiltà che ci sta cadendo addosso",ma subito ritrovò tutta la sua lucidità di giudizio e di critica .

Che cosa era rimasto delle speranze accese da quel "primo vagito" dell’ ONU ?

"L’ONU – rispondeva - non è più un punto di riferimento della speranza , divenuta ormai , come ha scritto un polemista arabo , "il negozio di abbigliamento giuridico degli Stati Uniti"; Saddam Hussein era "riuscito a dimostrare che il diritto internazionale non è in realtà che una copertura del gendarme solitario del mondo, il quale adopera a proprio arbitrio le risoluzioni dell’ONU , si sostituisce ai soggetti che dovrebbero farle valere, trascina con sé gli alleati.".

Ma il giudizio , nel momento in cui egli quantificava la guerra come "un crimine contro l’umanità" ("Il Manifesto" 15 febbraio 1991), andava ancora più a fondo e padre Balducci guardava ancora più lontano nella notte : la guerra del Golfo, a suo parere, annunciava il declino, anzi la fine dell’età moderna; "l’età moderna finisce con il probabile genocidio nel Medio Oriente, così come cominciò cinquecento anni fa con il genocidio degli Indios nel lontano Occidente". (…)

Dunque la guerra del Golfo non era un episodio, non era una ferita che presto si sarebbe rimarginata .

Essa, come il ventre gravido evocato da Bertolt Brecht, conteneva dentro di sé l’intero programma del tempo che sabbe venuto…apunnto quello che stiamo vivrndo; e padre Balducci ne fu pienamente consapevole, anticipando un giudizio di "fine dell’età moderna", di fine di un’epoca , che noi siamo arrivati a formulare solo dieci anni dpo, dinanzi al crollo delle Due Torri e all’insensata reazione che ne è seguita.

E tanto fu lucido padre Balducci nella previsione del disastro, che ispirò e volle a tambur battente pubblicare quello che doveva essere l’ultimo libro che si deve a lui , "La strategia dell’Impero", di Umbero Allegretti, Manlio Dinucci e Domenico Gallo, in cui era già tutta descritta la strategia che si sarebbe dispiegata nel decennio successivo, dalla guerra del Golfo alla guerra globale ; un libro – dicevo io nella prefazione – che "scritto con urgenza , deve essere letto con urgenza . non può essere posposto a nessun’altra lettura; anzi bisognerebbe leggere solo questo libro, mentre 500 anni dopo la Conquista vengono riscritte le tavole del dominio nel mondo.".(…)

Che cosa era successo?

Quale era stato lo scacco che aveva travolto le certezze che padre Balducci aveva proclamato all’inizio della crisi, fino ad annunziare l’avvento di un mondo nuovo?

Lo scacco che padre Balducci non aveva messo in conto era lo scacco della ragione,

padre Balducci si era affidato alla ragione, ed era la ragione che l’aveva tradito.

Quello che aveva declinato in tutti quei mesi era stato, infatti , un pacifismo della ragione.

Pur appartenendo, per cultura e per fede, al pacifismo della non-violena, padre Balducci non vi si era lasciato rinchiudere.

Egli non aveva avanzato, contro la guerra, gli argomenti derivati da una pura istanza etica – che gli opinionisti con l’elmetto tacciavano di "subcultura" - ma gli argomenti razionali di un nuovo realismo politico.

La pace poteva essere fondata restando nei limiti della sola ragione.

Era la forza stessa delle cose, egli diceva , che escludeva la guerra dal novero delle possibilità razionali(…), ed era il diritto che aveva trasformato il vecchio pacifismo del cuore in un "pacifismo istituzionale", che non faceva della pace un principio assoluto, ma la presidiava con la robusta salvaguardia delle norme e degli ordinamenti.

Il pacifismo della non-vilenza poteva anche attendere la vittoria tra mille anni, come egli diceva citando Gandhi , ma il pacifismo istituzionale doveva vincere subito, e anzi aveva già vinto, perché ormai era entrato nell’ordine della "necessità storica".

Quali erano questi argomenti di ragione?

(…) La guerra, oggi, diceva,non la può vincere nessuno, e del resto "anche una guerra vinta non chiude il conflitto che voleva chiudere, lo riapre in forme nuove e più terribili".

E ancora negli ultimi giorni prima che la guerra si scatenasse, agli inizi di gennaio, padre Balducci scriveva che quella guerra era impossibile, che non si poteva fare.

"Riuscite a immaginare una fine delle ostilità?

Riuscite ad immaginare i confini del teatro di guerra?

Riuscite ad immaginare di quali armi si farebbe uso?

E, "una volta finita, sarebbe finita?il terrorismo, come risposta dei vinti nei tempi lunghi, sarebbe illecito?".

La guerra non era più razionale perché la ragione non aveva risposte a queste domande.

(…) già prima di Hiroshima, e sempre per un dato di ragione , l’umanità era arrivata a concepire l’ulteriore impossibilità della guerra , "a partire dall’11 agosto 1941, dal giorno in cui venne firmata da Roosvelt e da Churchill la Carta Atlantica che segna il trapasso del principio della non-violenza dalla sfera meramente soggettiva a quella oggettiva delle istituzioni, da quella dell’utopia a quella del realismo.

La Carta afferma infatti che, terminata la guerra , le nazioni avrebbero dovuto abbandonare per sempre il costume di risolvere i conflitti con l’uso della forza; e questo , precisa il testo, non solo per ragioni spirituali ma anche per ragioni pratiche, come dire realistiche".

Su quella svolta e su tutti gli sviluppi successivi , si fondava la certezza balducciana che la guerra fosse ormai impossibile: la fondazione dell’ONU , nel 45; la Dichirazione universale dei diritti dell’uomo nel 48; tutto il complesso dei Patti, delle Convenzioni, delle Risoluzioni che avevano disegnato una sorta di Costituzione della Comunità mondiale, di cui l’eguaglianza , la libertà, i diritti fondamentali costituivano il contenuto e il fine; il fatto che "tutti gli accordi internazionali, in particolare dalla conferenza di Bandung e quella di Helsinki del 1975", avevano avuto "come presupposto l’esclusione della guerra"; e da ultimo, proprio mentre si stavano ammassando le armate per la guerra, alla conferenza di Parigi del 21 novembre del 1990 – come subito Balducci , il 27 novembre , sottolineava – "i 34 Paesi dell’Europa , firmando la Carta di Parigi, avevano solennemente dichiarato la fine della guerra come strumento di giustizia.".

Perciò , nonostante tutti i segnali in contrario e le analisi più disincantate che facevano anche molti dei suoi amici , padre Balducci non credeva alla guerra , e non credendoci la riteneva impossibile, anzi "impensabile".

E prevedendo l’obiezione di chi avrebbe potuto accusarlo di ricorrere alla logica di don Ferrante, rispondeva che i don Ferrante erano proprio quelli che imperturbabilmente credevano alla guerra, come se essa fosse scritta nelle stelle.

(…) La campagna di persuasione a favore della guerra fu più agguerrita e più invasiva della guerra stessa : perché si trattava appunto di rovesciare un senso comune, di cui padre Balducci forniva la più alta espressione, e di rimettersi in casa la guerra, la ripudiata, di nuovo presentandola bella e agghindata come una sposa.

 

 

Ma la poesia non muore

(A padre Ernesto Balducci)

 

Mi rifugio nel tuo ventre terra amata.

Il tempo è scuro

e gli egoismi dei falsi sacerdoti del potere

imbrattano il tuo cielo di marciume e di fiele.

Mi adagio nel tuo ventre terra offesa

…col gelo dentro il cuore.

Ma la poesia non muore con la guerra.

Suo è il tuo pianto.

Sua, la tua desolazione.

Senza bavaglio l’anima

cammina e sosta

e scopre

tra le macerie in fiamme

le pustole del male:

la forza del più forte

il diritto negato

il mattino trafitto

da lucciole di fosforo e di uranio.

L’informazione armata arma le menti e i cuori.

Ma la poesia

non muore con l’inganno.

Con lo sguardo più terso

di un mattino che viene

vede oltre i limiti tracciati dal potere

scorge il palpito vitale della pace

e restituisce al mondo la voglia di sognare.

 

Rosalba Satta

 

 

Il pianto del cielo

(A padre Ernesto Balducci)

 

Oggi l’anima piange.

Vedo sciami di schiene

curve sotto il peso di croci.

L’indifferenza soffia

gonfiando ventri di bimbi

tracciando solchi su corpi

– ormai sfatti –

di donne invecchiate da sempre.

E chi sa generare

solo stracci di idee

- aborti di pensieri -

mastica qualunquismi surgelati

ereditati da sterili passati

fatti di "io sdentati"

…culla dell’egoismo.

Fiori senza profumo e senza stelo.

Oggi l’anima piange.

Vedo martelli e chiodi

ferite nel costato

pianto di cielo.

Buio.

E tutt’intorno brandelli di rimorso.

 

Rosalba Satta

 

Intervista a padre Ernesto Balducci

 

Lo “scandaloso” interesse dei terroristi.

 

Nel momento in cui don Salvatore Bussu mi ha detto d’avere una sua lunga intervista a padre Ernesto Balducci , ho sentito – forte - il desiderio di  averla il più in fretta possibile per leggerla subito.

Non sapevo - per distrazione o perché , fino a poco tempo addietro, presa da mille altre cose -, che quell’intervista…era già, da tempo!, a casa mia, contenuta nel libro “ Inquieti per Cristo” che don Bussu – della cui amicizia mi vanto  non poco – mi  mandò anni fa, subito dopo la pubblicazione.

Poiché sono convinta che niente accade per caso, e che esiste il tempo per ogni cosa, penso che… l’ effetto intensamente  positivo e la carica propositiva provati oggi ,a lettura appena terminata, probabilmente non li avrei provati , con uguale forza, ieri… perché più distratta e meno capace di sognare “in piedi”.

Mi piace pensare che, per quei casi della vita  a volte mascherati di mistero, l’intervista abbia testardamente ricercato  la via casa e, oggi, l’abbia finalmente ritrovata… sapendo che sarei stata ad attenderla con la giusta disponibilità. 

Nel leggere il dialogo tra padre Ernesto Balducci e don Bussu – perché di dialogo si tratta – ho capito d’essermi , forse, sbagliata nel dire e nello scrivere di lui.

Pensandoci bene, padre Ernesto Balducci non è stata una persona “fuori dal comune”, non è stato l’uomo forte , dal punto di vista morale e culturale, che ogni tanto ci accade di desiderare e di incontrare.

Non è stato , forse, nemmeno un profeta.

E’ stato… “semplicemente” un Uomo. E, in questo, sta la sua grandezza.

Un Uomo che ha, “semplicemente”, messo in pratica il Vangelo  e che, perciò, ha saputo leggere con facilità i segni dei tempi..

E lo ha  fatto con la naturalezza propria di chi ha il passo verso l’altro e lo sguardo capace di abbracciare l’orizzonte.

Un Uomo lontano, anni-luce, dai fabbricanti di steccati e di luoghi comuni.

E’ stato – così, oggi,  lo vedo -  un costruttore di ponti .

Un uomo che ha utilizzato la sua cultura - davvero sconfinata - per parlare il linguaggio di tutti, per essere compreso anche e soprattutto dagli ultimi.

Per dare voce ai silenzi di pietra delle vittime dell’ingiustizia.

Per denunciare gli inganni.

Per dire  che il re è nudo e, contemporaneamente… che la primavera, nonostante tutto, butta gemme, anno dopo anno.

E’ stato un Uomo dell’incontro e, perciò, molto, molto scomodo…

Nel muoversi, nel fare e nel dire secondo quella coscienza che odorova di messaggio evangelico, inevitabilmente ha messo in evidenza le contraddizioni,  l’immobilismo e l’ipocrisia di un mondo che ogni tanto pareva e pare andare alla deriva.

E’ stato anche ( o soprattutto?) un Uomo capace di rendere reale l’utopia…perché  ha ricordato una cosa quasi banale nella sua semplicità.

Ha ora  sussurrato, ora urlato che il lubrificante per tenere in funzione il motore del mondo non può che essere l’amore.

Facile, no?

Semplicemente l’amore.

L’intervista?  Tutta da leggere…

 

 

 

 

Intervista a padre Ernesto Balducci pubblicata nella rivista “Jesus” nel febbraio del 1987 (Tratta dal libro di don Salvatore Bussu “Inquieti per Cristo” - Edizioni L’Ortobene)

 

 

 

 

Padre Ernesto Balducci non ha bisogno di molte presentazioni. E’ noto in tutta Italia per i molti libri che ha scritto e soprattutto per il suo impegno culturale nel mondo cattolico italiano svolto attraverso la rivista “Testimonianze” da lui fondata, e attraverso le tante conversazioni che egli va tenendo nelle varie città italiane.

Questa sua esperienza di cultura e di impegno evangelico, da ormai vent’anni, la vive nel suo Centro Studi  Badia Fiesolana di San Domenico .

 Vicino ad uomini come Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani, ha anticipato - nelle sue battaglie , vissute in proprio o insieme a gruppi di cui è stato animatore -, le conquiste della chiesa conciliare, e le ha sviluppate attraverso i suoi libri e i tanti articoli pubblicati su “Testimonianze” e su altri giornali, con una coerenza che gli ha procurato non pochi contrasti.

Tra i suoi impegni attuali, c’è anche quello - come mi ha scritto in una lettera – di “seguire con la riflessione e la solidarietà, la faticosa marcia dei protagonisti degli anni di piombo, che è, in molti casi, una marcia di liberazione”.

Egli parla di una “nuova cultura che sta maturando nel carcere italiano tra quei detenuti che si trovano a scontare pene durissime per reati alla cui origine c’è stata la passione per il cambiamento della società secondo giustizia” (Cfr. Servitium 1985).

Essendo “un uomo capace di confrontarsi senza pregiudizi di nessun tipo con i problemi che da qualche tempo fermentano dietro i cancelli elettronici”, padre Balducci è in contatto, soprattutto epistolare , con tanti detenuti presenti nelle carceri di massima sicurezza e si incontra spesso con i familiari.

L’ho avvicinato per intervistarlo, proprio mentre si preparava ad amministrare il battesimo ad una bambina figlia di detenuti. “L’intervista – ha premesso alla conversazione – cade in un giorno molto opportuno per quanto mi riguarda, perché questa sera, nel pomeriggio anzi , proprio qui, nella mia comunità  che è nata  intorno alla Eucaristia domenicale , noi celebriamo il battesimo di Ilaria, la figlia di Marco Solimano, che è detenuto per i reati di terrorismo  nel carcere di Solicciano, e di Rossella Nicolai, anche lei vissuta nel carcere per gli stessi reati ma che oggi si trova in libertà.

La singolarità di questo battesimo – ha continuato padre Balducci – è che Ilaria, la figlia di Marco e Rossella, è stata concepita per inseminazione artificiale, data l’impossibilità dei due coniugi ( si tratta, infatti, di due sposi) di poter soddisfare il loro vivissimo desiderio  di un figlio nei modi che natura vuole”.

 

Non Le pare che questo fatto metta a fuoco la disumanità con cui i detenuti vivono la loro affettività?

 

“Ma certo. E’ chiaro che questo episodio suggerisce una riflessione sulla necessità di superare  la condizione tradizionale del carcere perché è sempre più inaccettabile il fatto che la punizione di un crimine comporti anche la sospensione di quelli che sono i diritti della vita affettiva e che sono imprescindibili”.

 

Quando è iniziato questo suo rapporto con i detenuti?

 

“E’ da circa tre anni che ho un rapporto molto vivo con il mondo dei carcerati per terrorismo. Un rapporto che è nato spontaneamente . Era venuta da me , in cerca di conforto più che di un consiglio, la madre di un detenuto fiorentino. Bastò che io le dicessi parole di comprensione perché il mio contatto con i familiari dei detenuti per terrorismo si dilatasse ed il mio nome  nei carceri di massima sicurezza cominciasse a circolare come quello di un uomo capace di confrontarsi senza pregiudizi con tutti . In poco tempo la cartella della mia corrispondenza  con detenuti differenziati è andata sempre più gonfiandosi.

Ho avuto anche colloqui con alcuni di essi dentro il carcere. E qui, a Firenze, ho organizzato con alcuni ex detenuti una Cooperativa di lavoro intitolata emblematicamente “Capo di buona speranza”.

Una cooperativa di serigrafia che nei suoi progetti ha anche quello di stabilire  rapporti stabili di collaborazione con coloro che ancora  sono dentro le mura del carcere. Si tratta di una delle creazioni più significative di quella “nuova cultura” che ci ha lasciato in eredità la terribile stagione degli anni di piombo”.

 

Della quale Lei parla come di una cosa ormai passata.  Ma è proprio convinto che l’emergenza è finita?

 

“Sono convinto che l’emergenza è finita ed ho perciò salutato con soddisfazione un analogo pronunciamento che tempo fa espresse , in un suo discorso, il Presidente della Repubblica.

Ed è finita nonostante abbia avuto qualche improvvisa riviviscenza proprio qui, a duecento metri da me, dove è stato ucciso l’ex sindaco di Firenze, Lando Conti. Non basta qualche raro episodio per persuaderci che lo stato di emergenza continua.  Molte componenti di quella situazione drammatica del nostro paese sono mutate e sono mutate in positivo.

Ad esempio, anche il sistema repressivo che era diventato nevrotico in quel periodo, oggi da segni di larga intelligenza e di squisita umanità. Devo riconoscerlo, senza far nomi”.

 

Forse un nome bisogna farlo, Mino Martinazzoli…

 

“Credo di si. Durante questa mia frequentazione dei detenuti e dei loro familiari, ho avuto un’ udienza dal Ministro Martinazzoli. Parlando a quattr’ occhi, ho potuto constatare in lui una precisa e sofferta consapevolezza delle contraddizioni del sistema carcerario italiano .

C’è stato anche un nobile riconoscimento, sia pure nella massima discrezione, che le sue intenzioni di Ministro trovavano inciampo nella struttura burocratica del sistema carcerario. Non basta che un Ministro esprima un desiderio, invii una circolare perché tutto sia eseguito a puntino. Ci sono, dal vertice alla base, nodi, spazi opachi, resistenze, dissimulazioni che impediscono anche ad un ministro quel che sinceramente e fortemente vuole”.

 

Mi pare , comunque  che, rispetto ad alcuni anni fa, le cose stiano cambiando in meglio, e non solo a livello ministeriale…

 

“Lo penso anch’io. E’ mutato il clima politico. C’è, anche nell’opinione pubblica, una disponibilità ad atti di clemenza di varia natura nei confronti dei protagonisti di quel triste periodo della nostra storia.

Quando lei parlò di “terrorismo di Stato”, riferendosi alla situazione del carcere speciale di cui era cappellano, toccò certamente una componente di un sistema che consideriamo superato, speculare  al terrorismo più basso”.

 

Quindi anche secondo Lei un terrorismo di Stato esisteva realmente…

 

“L’espressione terrorismo di  Stato, da lei usata  in occasione della sua presa di posizione in favore dei brigatisti che digiunavano a Badu  ‘e  Carros, è giusta, senza voler con questo gettare o alimentare il discredito in cui sono cadute le nostre istituzioni. Sappiamo che progetti di eversione  sono maturati anche nelle sfere alte dello Stato. Sappiamo che anche le complicità a quel livello sono stata larghissime.

Il terrorismo di Stato, poi, ha avuto un luogo di esercizio straordinario – e lei ne è stato un testimone fortemente critico – nelle carceri . Le leggi di emergenza, infatti, hanno consentito allo Stato di realizzare, dentro le mura del carcere, metodi terroristici in contrasto formale al dettato costituzionale che vuole che il carcere sia un ambiente riabilitativo e non meramente punitivo”.

 

Specifichi meglio, Padre: in quali carceri era presente un tale terrorismo di Stato?

 

“Direi nei carceri speciali, questi terribili simboli degli anni di piombo. A quanto mi risultava dai racconti e dalle testimonianze  indubitabili che ricevevo di continuo, al di là di ogni esagerazione emotiva, essi  erano un espediente diabolico che, sotto il pretesto della sicurezza dello Stato, in realtà miravano all’annientamento morale e psicologico del condannato o del presunto reo. La pagina dei carceri speciali, abbastanza ignorata dalla grande opinione pubblica, è veramente una pagina da stracciare.

Essi, perciò, non potevano non suscitare, negli uomini autenticamente democratici e nella loro coscienza, una repulsa… in nome di una visione dello Stato in cui la comprensione delle ragioni e dei diritti del carcerato fa parte essenziale della dinamica riabilitativa, di cui il carcere deve essere lo spazio istituzionale”.

 

 

Lei, nella relazione al Convegno tenuto a Firenze nel 1984 sui carceri speciali, parla espressamente di uno Stato violento…

 

“Si, ricordavo quanto ci insegna la filosofia del diritto, che cioè  anche lo Stato appartiene alla storia della violenza, anzi esso non è che la violenza  nella sua forma pubblica, resa legittima dal patto sociale che tutti ci lega, al di qua e al di là delle sbarre.

L’esperienza che ho vissuto, tramite i miei rapporti epistolari e di persona con i detenuti delle carceri speciali, è servita a mostrarmi, vorrei dire in situazioni limite, quale sia lo spirito che anima ancora il nostro sistema.

Il nostro è uno Stato violento, e lo è soprattutto nel periodo degli anni di piombo, che è il periodo della P2, dove la violenza non era solo quella intrinseca alla legge, che possiamo considerare come un portato inevitabile delle condizioni difettive della nostra democrazia e di ogni democrazia: era il progetto organizzato di molti corpi interni  agli apparati dello Stato.

Perciò non è equo un giudizio che fa risaltare la violenza soltanto di una parte, quella più debole, se vogliamo, nonostante la sua aggressività, data la sua età”.

 

In che misura lo Stato così descritto può essere causa anche lontana del terrorismo degli anni ’70?

 

“Un’analisi degli anni di piombo, se è fatta adeguatamente – la sede più giusta a tale scopo non è il tribunale , potrebbe essere il Parlamento – dovrebbe mostrare  come l’iniziativa della cosiddetta lotta armata ha avuto il suo quadro genetico anche nel comportamento dello Stato, o meglio di certi suoi apparati più delicati, eversivo anch’esso.

Alle radici remote della generazione terroristica c’è anche lo scandalo per uno Stato troppo inferiore alle legittime attese della coscienza comune, in particolare della coscienza delle nuove generazioni.  Lo Stato non è innocente dinanzi ai terroristi colpevoli. In questa nuova presa di coscienza, gli ex terroristi devono per parte loro collegarsi alle motivazioni positive che stanno alle origini del loro smarrimento.

Quelle motivazioni  hanno un valore ancora oggi , anzi sono ancora  più necessarie che mai. Noi vogliamo uno Stato  non oppressivo. Noi vogliamo una società fraterna e giusta. Noi vogliamo che il potere non sia in mano agli esperti del ladrocinio. Tutte queste cose le vogliamo anche noi, come le vollero anche loro, che purtroppo smarrirono la via della paziente  costruzione democratica”.

 

 

Che oggi, però, almeno molti di essi , stanno riscoprendo anche se con tanta fatica…

 

“Forse si. Sono molti i casi di terroristi di mia conoscenza  che, in coincidenza  all’esplodere, in questi anni ’80, del Movimento della Pace, hanno riconosciuto che negli obiettivi  proclamati dal Movimento, ci sono proprio quelli che determinarono la loro scelta infausta, per cui oggi  si riconoscono facenti parte di tale movimento. Questa è la risposta più giusta a quel che essi chiesero allora: la costruzione democratica di quello Stato che essi avrebbero voluto. La società italiana non ha che da guadagnare dal fatto che i protagonisti di una faida così nefasta diventino oggi i protagonisti di un cambiamento culturale, negli orizzonti della pace…”.

 

Sarebbe augurabile. Se non erro, Lei è uno dei fautori di tale movimento…

 

“Si. Io sto occupandomi in modo intenso, sul piano della riflessione, della testimonianza e della organizzazione di quella che ormai suol chiamarsi cultura della pace. La quale trova occasioni per manifestarsi e per crescere di consapevolezza, non tanto nelle espressioni del conflitto est-ovest o nord-sud, quanto piuttosto nella conflittualità epidemica che attraversa  le articolazioni della nostra organizzazione collettiva, nelle quali si è realizzata la formalizzazione e la legalizzazione, la legittimazione dello spirito  di violenza: dalla coppia maschio e femmina alla organizzazione scolastica e appunto al carcere. La violenza che esplode nelle trincee di guerra è la stessa che quotidianamente noi abbiamo integrato nel costume privato e pubblico”.

 

Ma che cosa ispira e dove porta una tale cultura di pace?

 

“Cerchiamo di avere idee chiare. La cultura della pace non è quella che si esprime negli atteggiamenti di facile benevolenza che annullano la distinzione tra il bene e il male, tra il crimine e il comportamento onesto, tra i carnefici e le vittime… Dio ce ne guardi! Essa ci porta a risalire alle radici dei comportamenti della società e quindi, nel nostro caso, ad esaminare con spirito critico, la istituzione carcere, in tutto ciò che essa presuppone e contiene. Naturalmente con lo spirito critico che non alimenta la sovversione, la pura ribellione, ma solleva la consapevolezza di tutte le parti sociali ad un livello più alto, in modo da fare avvertire la necessità di dare nuova struttura e nuovo significato a situazioni inevitabili come quella carceraria, nella prospettiva del superamento della necessità del carcere, che deve essere un obiettivo imperativo per una seria democrazia”.

 

Liberarsi della necessità del carcere è una parola d’ordine della “nuova  cultura” che viene dai detenuti speciali e di cui Lei parla molto spesso

 

 “Proprio così. Dovendo tirare un consuntivo degli anni terribili di piombo, è giusto riconoscere che i detenuti per terrorismo, per la loro qualità  intellettuale e per le remote motivazioni morali della loro scelta deviante e criminosa, erano appunto dei detenuti speciali, che hanno dimostrato di saper stabilire con il carcere e lo Stato (che ai loro occhi aveva il profilo terribile del carcere) un livello di libertà interiore, di duttilità mentale, di spirito autocritico notevolissimo. Quando io ho parlato di una cultura del carcere di cui essi sono stati i principali protagonisti, e che è venuta ad arricchire con un nuovo termine di confronto , il panorama della vita morale e intellettuale del Paese, ho detto una cosa di cui non mi pento affatto. Oggi non  solo per i detenuti per ragioni politiche, ma per i detenuti in genere,  si pone con forza alla coscienza del Paese il problema se il carcere, così come si è realizzato nel passato, sia davvero uno strumento adatto a realizzare le finalità che la Costituzione ha proposto ai compiti dello Stato. A me pare di no. Allora – come lei dice nella domanda – liberarsi della necessità del carcere è una parola d’ordine della nuova cultura. Il grande popolo dei detenuti su cui grava, non ce ne dimentichiamo, una discriminazione sociale che sta a  monte del crimine, ha trovato in questi detenuti speciali, dei portavoce.  Può darsi che essi, a volte, abbiano anche avuto un trattamento di riguardo nel quale potrebbe avere avuto persino il suo peso una specie di omertà  di classe sociale. Perché non bisogna dimenticare che molti di questi detenuti appartengono alla società bene, alla stessa società alla quale appartengono, per lo più, i giudici e gli uomini del potere politico. Ma va a loro onore  di aver fatto della contestazione del carcere non una causa ristretta alla loro  situazione, ma una causa di carattere universale. Le leggi che sono  in preparazione al Parlamento mirano, appunto, non certo ad un superamento di colpo della struttura fisica del carcere, ma ad un allargamento degli spazi di rapporto fra il carcere e la società esterna.

Dando un valore più generale a questa osservazione, io vivo in modo diretto  una ricerca, il cui simbolo sul piano architettonico ed urbanistico è l’amico Giovanni Michelucci, che ha come obiettivo di verifica l’esistenza, all’interno della nostra società, di spazi chiusi, segregati dall’insieme , di cui il carcere è l’espressione limite ma non l’unica. 

La nuova cultura, che non può non riunire nel consenso e nell’impegno tutti gli autentici democratici,  ha per suo obiettivo l’eliminazione degli spazi chiusi, si tratti degli ospedali, si tratti delle case di riposo, si tratti persino della scuola, e si tratti appunto del carcere. La società deve mantenere i suoi rapporti  con coloro che si pongono fuori dal cerchio ristretto dei cittadini  efficienti, dei cittadini galantuomini. E il carcere, proprio perché è la situazione limite della segregazione, è una realtà fatta apposta per mettere in crisi la buona coscienza della società. E, dentro il carcere, la istituzione del carcere speciale ha significato un punto limite di collisione fra i principi elementari della democrazia e la segregazione dei colpevoli”.

 

Ma si può davvero desumere , da quanto ha detto , una crescita democratica del Paese?

 

“Credo di sì. Dovendo dare, come sempre è bene fare, uno sguardo di insieme alle vicende del nostro passato - anche se con un punto di riferimento al fenomeno del terrorismo -, potremmo anche dire che Dio ha scritto diritto su righe storte, cioè attraverso gli sbandamenti dei giovani criminali e le sofferenze inenarrabili  vissute da tante famiglie… specie dalle famiglie colpite dal terrorismo, che non vanno dimenticate, fra le quali, per altro, sono emersi gesti, atteggiamenti di altissima dignità morale. Forse noi abbiamo compiuto un passo avanti nel cammino  della crescita democratica e soprattutto della crescita di quel presupposto della democrazia  che è il senso della corresponsabilità civica. E’ in base a questo che io ho sottolineato l’importanza della cultura  di cui sono soggetti  i terroristi dei nostri carceri. Questo processo di mutamento non si identifica con il pentitismo, nel quale c’è un limite: la pura ed esterna ritrattazione  o deplorazione del fatto commesso . Il processo di conversione non può risolversi in questo momento, su cui pesa il sospetto della utilizzazione del potere nella sua comprensibile strategia di lotta contro il terrorismo”.

 

Lei, al Convegno sui carceri speciali a Firenze nell’84, oltre che di uno stato violento, ha parlato appunto anche di una nuova cultura  che viene dal carcere di cui i detenuti politici sono non più oggetto , ma soggetti. Come sarebbe a dire?

 

“Nel Convegno, a cui lei fa di nuovo riferimento, ho parlato di un arricchimento  della cultura del nostro Paese a causa di questa emersione di un nuovo polo dialettico nel dibattito nazionale. I detenuti non sono soltanto oggetti della nostra riflessione democratica.  Essi hanno preso la parola, e a volte a un giusto livello di serietà morale, per richiamarci semplicemente agli impegni derivanti dalla nostra Costituzione e radicalmente derivanti dalla nostra qualità di cittadini democratici e, nel caso, anche cristiani. Anzi, sono proprio i detenuti politici – ricordo alcuni dibattiti al Carcere di Solicciano, organizzati qui a Firenze con la concorrenza di molte persone e delle istituzioni  -, sono stati i detenuti politici , dicevo , a sottolineare  come anche i carcerati comuni sono, se ben si pensa, in realtà carcerati politici. Esistono, e in gran numero , dei detenuti che portano nella loro vicenda personale, i riflessi negativi della nostra organizzazione sociale. Una presa di coscienza  della genesi del proprio comportamento delittuoso, porterebbe sicuramente il carcerato ad avvertire la radice politica  della propria deviazione. Questa presa di coscienza, favorita dal nucleo dei carcerati politici, è stata un arricchimento all’interno del carcere. Potremmo citare alcuni casi, come Rebibbia o come Solicciano, nei quali la vita del carcere è stata tonificata, arricchita umanamente, dalle iniziative prese appunto dai detenuti per terrorismo. C’è, dunque, in questo gruppo una matrice idealistica che si deve non negare o reprimere ma recuperare perché si apra a prospettive di non violenza. Ne verrebbe un arricchimento, come già ne viene, per tutto il Paese”.

 

Molti di questi detenuti politici si sono dissociati con grande disappunto di altri compagni, rimasti, per così dire , irriducibili…

 

“Sono molto rispettoso dei terroristi che sono rimasti sulle loro posizioni iniziali e che guardano con sospetto i loro compagni che, a loro dire, hanno tradito la causa. Non è facile distaccarsi da un recente passato che li ha visti, in qualche modo, protagonisti.  Ma sono ancora molto più rispettoso verso chi, pur riconoscendo valide  le motivazioni iniziali  della propria scelta, si è accorto, dopo una dolorosa verifica, quanto fosse sbagliata la lotta armata, ed ha dato vita, in modo esplicito e solenne, al fenomeno della dissociazione. Anche etimologicamente essa si contrappone al delitto di associazione di cui molti detenuti sono imputati”.

 

E di questo l’opinione pubblica non può  non tener conto…

 

“Per lo meno è auspicabile. L’opinione pubblica dimentica che tra i terroristi ci sono, sì, quelli che hanno commesso reati di sangue, ed è giusto che essi espiino, senza particolari indulti, alla pari di ogni altro detenuto che ha commesso reati di sangue; ma ci sono  molti che hanno il semplice reato di associazione, senza reati di sangue sulla coscienza. Allora un’aperta dissociazione, come quella che molti di loro hanno dichiarato, non dico che estingua il reato, ma dà allo Stato garanzie sufficienti che è venuta meno la situazione deviante in cui erano venuti a cadere. La considerazione  speciale per i dissociati rientra perciò tra i comportamenti auspicabili di uno Stato che tragga forza , per la propria benevolenza , dallo spirito democratico che lo ispira”.

 

Una benevolenza che lo Stato dimostra attraverso una legge sui dissociati che sta per essere approvata da entrambi i rami del Parlamento…

 

“Esatto. A costo di ripetermi, non dobbiamo dimenticare che fra i detenuti  per terrorismo, solo una minima parte è responsabile di reati di sangue, mentre la maggior parte ha solo una responsabilità morale  che, a volte, è veramente tenue, molto discutibile. Quindi lo Stato deve ritornare su quella situazione. Mi pare di poter dire – adesso lo vorrei dire con piena chiarezza – che la legge sui dissociati, che sta approdando  a buon esito  nel Parlamento, porta in sé molti aspetti positivi, soprattutto per quanto riguarda, appunto, la considerazione particolare che meritano coloro che si dichiarano dissociati: se era reato l’associazione, la dissociazione, in qualche modo , annulla l’elemento specifico del reato commesso”.

 

Il Parlamento, però, non sta pensando soltanto ai dissociati…

 

“Ha ragione. Infatti è in corso di approvazione anche la parallela legge che riguarda la procedura penale. Sono convinto così che la nuova legge sui dissociati, e quest’ultima, serviranno a creare un nuovo clima, a realizzare, per altre vie, gli obiettivi non realizzabili nemmeno con l’ipotesi dell’amnistia. Ad esempio, sono previste riduzioni di pena, sulla base del buon comportamento, piuttosto consistenti; sono previsti periodi di permanenza dei detenuti per ragioni affettive (e quindi un rapporto coniugale non del tutto annullato dalla pena carceraria); è prevista una forma di libertà vigilata; è prevista la possibilità di lavorare fuori. E’ appunto su questa ipotesi che noi abbiamo molto lavorato anche tramite la cooperativa  di cui, prima , ho parlato. Devo dire che già fin d’ora dentro il carcere di Solicciano  c’è un clima che gli stessi interessati  dichiarano molto buono. Insomma, siamo sulla giusta via per superare alcuni nodi oscuri del nostro recente passato”.

 

Nodi oscuri… Quali?

 

“Uno di tali nodi, ad esempio, è la legge sul pentitismo, che è una vera violazione del concetto giuridico di reato e di pena del reato:  un concetto che non deve essere contaminato da riferimenti soggettivi e ritrattazioni.  L’utilizzazione dei pentiti potrà forse giustificarsi con la considerazione della effettiva, dimostrata efficacia che i pentiti hanno avuto nello smantellare l’apparato terroristico, ma in realtà per la coscienza giuridica moderna l’espediente dell’uso del pentito è tutt’altro che ortodosso”.

 

Ma tutto questo, Padre , comprese le due leggi di cui ha parlato, con tutti i benefici  che ne potranno venire, non Le sembra un po’ riduttivo? Lei , qualche anno fa, voleva promuovere un Comitato nazionale  per la cultura dell’amnistia…

 

“Si, è vero. L’ipotesi dell’amnistia io l’ho fatta  assieme ad altri amici, nella convinzione che, quando si chiude un periodo eccezionale nella vita di uno Stato, un atto di clemenza  serve a sottolineare la volontà  comune di pace, ed anche, in qualche modo , a riconoscere che il grave turbamento della vita dello Stato ha avuto cause complesse che non possono essere tutte addossate a coloro che hanno infranto, e così terribilmente a volte, la legge. Sono convinto che il periodo dell’emergenza è finito, perché abbiamo, da una parte, il pratico esaurimento degli atti terroristici e, dall’altra, abbiamo uno Stato che sembra ispirato a realizzare forme di esecuzione delle sue finalità, diremmo così, di tutela dell’ordine costituito, del tutto in linea con lo spirito e la lettera della Costituzione.

L’idea dell’amnistia ha avuto una riviviscenza recentissima quando il Capo dello Stato ha riconosciuto, anche lui,  che l’emergenza è chiusa  e che , quindi , è pensabile un’amnistia. Io capisco, per altro - e questa mia perplessità è dovuta anche ai colloqui che ho avuto con amici giuristi e parlamentari  -  che l’amnistia  presenta non poche difficoltà  di varia natura.  E’ vero che, a vantaggio di questa ipotesi, c’è l’analogia con  quanto lo Stato  italiano fece nei confronti dei reati commessi durante il fascismo.  Era guardasigilli, allora, Palmiro Togliatti – certamente poco disposto ad una indulgenza nei confronti del fascismo – e tuttavia , anche per sua opera, si addivenne ad una amnistia  per i reati commessi  in un periodo di emergenza  della nostra storia . 

Bene, gli anni di piombo rappresentano, sia pure in misura estremamente inferiore, un periodo critico della nostra storia, che potrebbe essere chiuso  con un atto solenne dello Stato. E che comporta, da una parte, il riconoscimento, appunto, della globalità delle responsabilità di quell’epoca e, dall’altra, un provvedimento che ristabilisca, in tutti i suoi termini, il normale svolgimento della vita democratica.  Per questo passaggio, un’amnistia potrebbe rappresentare, per così dire, un provvedimento quasi emblematico di grande suggestione  morale per la coscienza pubblica. Però, anche se non si addiviene all’amnistia,  mi pare che sia ormai nelle cose, un provvedimento legislativo che rimetta le mani sulla complicata situazione dei detenuti per terrorismo”.

 

Lei non insisterebbe più, quindi, sul rimedio dell’amnistia?

 

“Da quanto ho già detto, avrà capito che non sono nemmeno io un fanatico dell’amnistia.  Oltretutto, nelle proposte fatte in Parlamento, la categoria dei detenuti per terrorismo è esplicitamente esclusa. Né so dimenticare che, in fondo, le origini di questo istituto di clemenza sono monarchiche: servivano a sottolineare gli eventi fausti della famiglia reale. In una democrazia autentica, altre dovrebbero essere le vie per esprimere lo spirito autenticamente democratico, e quindi di pace, tra la società e lo Stato”.

 

E quali potrebbero essere queste vie?

 

“Come ho già detto rispondendo ad una precedente domanda, sappiamo che in Parlamento stanno percorrendo un difficile iter delle leggi che nella molteplicità dei loro dispositivi possono raggiungere gli obiettivi che potrebbero essere raggiunti, ma non senza ambiguità, dal provvedimento dell’amnistia. Si tratta di riprendere le idee di fondo della riforma carceraria del 1975 che non hanno avuto modo o non hanno trovato volontà  politica adeguata  per la loro attuazione. L’idea principe, e che va al di là, evidentemente, dei prigionieri per terrorismo, è che il carcere deve avere come suo obiettivo la riabilitazione del detenuto, in modo che egli possa riprendere il suo posto nella vita sociale. Lo scopo vero del carcere, quindi,  non è quello punitivo.

Devo dire che tra gli aspetti - che, in più occasioni,  mi è piaciuto sottolineare  nella cultura nata all’interno del carcere -, metterei in primo piano la diffusa e sincera volontà di risarcimento che molti detenuti hanno manifestato. Il risarcimento non è umano e non è produttivo se si esaurisce soltanto nella durezza della pena. Questo concetto  afflittivo del carcere è alieno dalla nostra Costituzione”.

 

Un concetto afflittivo, però, che è nella prassi, nonostante il dettato dell’art. 27 della Costituzione e dell’art. 1 dell’ordinamento penitenziario del  ’75. Si dovrebbe  tendere ad un carcere più aperto…

 

 “Certamente. Lo stesso atto di clemenza dello Stato nei confronti dei dissociati dovrebbe essere soltanto un episodio di una più larga riconsiderazione dell’istituto carcerario, che alla pari di molti altri istituti di segregazione umana, dovrebbe, il più possibile, abbattere le barriere di separazione  dalla società. La stessa struttura fisica di certi carceri, come quello di Solicciano, nuovo di zecca, fa impressione, perché essa accentua in modo solenne la ‘città di Dite’ dantesca, la propria impenetrabilità e la propria lontananza psicologica dal corpo sociale”.

 

Una tale struttura  viene naturalmente giustificata da ragioni di sicurezza…

 

“A torto però. Le ragioni di sicurezza, che sono ragioni imprescindibili, devono in qualche modo combinarsi con una più articolata preoccupazione di mantenere vivi i rapporti fra carcere e società. La società non può ritenere di aver compiuto il proprio dovere quando ha relegato il delinquente  in una zona appartata perché espii il suo crimine. La finalità della riabilitazione investe sotto forma di responsabilità il corpo sociale anche nella fase di espiazione. Quindi occorre studiare i modi per mantenere attivi questi rapporti. Il carcere non è un accumulo di rottami umani su cui si applica inesorabile la legge. E’ una comunità di concittadini che hanno errato, che si sono macchiati di crimini.

Una comunità carceraria ha la possibilità di trovare in sé, se adeguatamente svegliata,  la coscienza di condanna dei gesti commessi e la volontà di allacciare un rapporto diverso con la società.  La circostanza del terrorismo, che abbiamo vissuto per anni  e che ancora  viviamo in qualche misura, è stata, nel processo complessivo  del nostro Stato, un dato provvidenziale perché  ha svegliato la coscienza di molti…

 

…ancora dominata  da atteggiamenti vendicativi  rispetto al mondo dei carcerati…

 

“Infatti, non c’è da illudersi. Si son fatti dei passi avanti in poco tempo, ma la coscienza generale del nostro Paese – lo dimostrano i referendum di anni fa - è, in parte, ancora dominata  dalla tensione sadica che mira  ad eliminare i delinquenti dalla società. Questa volontà punitiva ancora sussiste nel corpo sociale non politicamente evoluto. Gli atteggiamenti  del nostro governo sono più illuminati, molto più conformi alla ragione morale che non quelli che prenderebbe il corpo sociale se affidato a se stesso nella immediatezza di un pronunciamento referendario. Non dobbiamo dimenticarlo. Quindi si tratta di continuare ad utilizzare anche queste circostanze per portare avanti un processo di educazione della coscienza  comune nel nostro Paese. E devo dire che, al di là di ogni divisione di partito, uomini consapevoli  di questa necessità di superare  una certa situazione carceraria, ce ne sono sempre di più”.

 

Spinti in questo anche dall’atteggiamento della Chiesa in prima fila nel tendere la mano ai detenuti…

 

“Certamente. Le iniziative illuminate si moltiplicano ed è molto significativo, a mio giudizio, che la Chiesa  abbia trovato - per questa situazione di grave emergenza della coscienza morale civica  - ,  le forze di comportamento ispirato al Vangelo. Su questo atteggiamento si può anche ironizzare, come da parte laica a volte si è fatto, e in qualche caso in modo davvero improvvido.  Ma il comportamento di molti cappellani carcerari, compreso il suo a Nuoro, è stato molto utile per sottolineare quello che noi, da molto tempo, andiamo dicendo, come predicatori del Vangelo , che il Vangelo è un messaggio di liberazione.

C’è anche da noi una teologia di liberazione, non formalizzata ma realmente vissuta, a contatto con quegli spazi di segregazione sociale che sono, se conosciuti direttamente, la smentita terribile di una società che si vanta di aver messo in atto il principio dell’uguaglianza, della giustizia e della fraternità.

In realtà la città tecnologica – spesso i carceri sono un capolavoro di tecnologia –  mostra, se conosciuta dietro le quinte, la perversa volontà di emerginazione e di soppressione dell’uomo.

Su queste trincee nascoste, la coscienza morale e cristiana trova occasioni  per riorganizzare il proprio intervento sociale e formativo.

E’ finito il tempo in cui i cappellani avevano il compito di lubrificare il sistema punitivo, di consolare i detenuti, astenendosi da ogni eventuale complicità con le loro proteste e con le loro richieste  di rispetto dei diritti umani. Oggi, in tutti i settori, anche in questo del carcere, una presenza cristiana, conforme al Vangelo e conforme alla difesa dei diritti dell’uomo (che ormai è parte essenziale dell’annuncio evangelico), non può non porsi il compito di dare voce  a chi non ha voce, di illuminare la coscienza pubblica che la democrazia è fallita se non riesce ad abbracciare, nei propri confini , anche i carcerati.

E’ così che il servizio (può sembrare a volte una enunciazione retorica) che la Chiesa deve rendere alla società, trova modi concreti, pietre di paragone severe per manifestarsi e per rendersi credibile agli occhi del mondo”.

 

 ( da “Jesus” del febbraio 1987)