Budoni.

Incontro con lo psicoterapeuta infantile Manuel Tejera De Meer

Manuel Tejera

 

Il bullismo: cos’è e perché

 

"Il bullismo: cos’è e perché. Parliamone" :questo il tema di una "due giorni" alla quale perteciperà, come relatore, Manuel Tejera De Meer, psicoterapeuta infantile e adolescenziale. Gli incontri si terranno nel teatro della scuola media di Budoni il 15 e il 16 settembre, con inizio alle ore 16.L’incontro, organizzato dall’Assessorato alla cultura comunale e dall’Istituto Comprensivo, continua un discorso iniziato nel mese di maggio del 1996 e poi nel mese di settembre 1997 quando Tejera, sempre a Budoni, parlò del rapporto scuola-famiglia e dell’età adolescenziale, e consente, fra l’altro, un ulteriore approfondimento delle tematiche affrontate di recente nel corso "La scuola organizza il sociale" dal dottor Pietro Cancellu, dal professor Ugo Collu e dal giudice dei minori, il sociologo Carlo Murgia, che saranno presenti all’incontro.

Il fenomeno delle prepotenze tra bambini (uso di parolacce, ferite fisiche, sottrazione di oggetti, calunnie, minacce, emarginazione) è un problema che rischia di diventare esplosivo e che merita l’attenzione di tutti , in quanto non si tratta di casi isolati : in Italia il 41 per cento dei bambini e delle bambine della scuola elementare sono stati vittime di prepotenze da parte dei loro compagni.

"Cattiverie e sopraffazioni – si legge in un interessante articolo che porta la firma di Laura Cortina – riguardano bambini normali che vivono in altrettante famiglie normali, di ogni ambiente e classe sociale". Parlarne è perciò importante perché dall’incontro e dal confronto possono scaturire strategie idonee, non solo per tenere sotto controllo e arginare il fenomeno per poi risolverlo, ma per evitare che nasca e si diffonda in quelle realtà che ne sono ancora immuni. Continua purtroppo ad essere sottovalutata la necessità, o meglio, l’urgenza dell’andare insieme per costruire insieme. Noi adulti siamo troppo spesso assenti, distratti, impreparati e perciò incapaci di interpretare e risolvere i problemi dei nostri ragazzi. L’interesse momentaneo o, peggio, apparente di tanti politici è , poi, più dannoso del nulla, perché diventa sinonimo di superficialità e di interesse di bottega. Si continua a preferire l’intervento riparatore – che si vede e fa notizia – a quello preventivo che richiede idee speciali, impegno continuo, progettalità e comunicazione fra le varie agenzie educative. Non a caso il ministro Berlinguer, nell’affrontare la tematica del bullismo, cita la legge Turco che, se attuata, coinvolgerebbe tutti i soggetti sociali.

Mario Lodi nel suo stupendo "Cominciare dal bambino" ci ricorda che "collaborando si dona, ci si riunisce, si cresce, si diventa forza".

L’incontro con Tejera sarà motivo di riflessione e di confronto. Di crescita, perché lo studioso rifugge dalle sterili generalizzazioni ( non a caso è conosciuto anche come "il sabotatore dei luoghi comuni") che, anziché suggerire soluzioni, etichettano e perciò ghetizzano. All’incontro sono invitati tutti gli adulti motivati. Agli insegnanti partecipanti verrà rilasciato un certificato di frequenza .

Rosalba Satta Ceriale

(da "L’Ortobene" settembre 1998)

 

Carlo Murgia e Manuel Tejera De Meer

 

 

Quando l’infanzia mostra i muscoli

 

"Sa che cosa vuol dire per un bimbo non essere ascoltato e capito?".

Ne ha incontrato a migliaia , di bimbi e ragazzi con l’anima mutilata, Manuel Tejera de Meer in trent’anni di attività nel suo studio romano di psichiatria infantile.

"Sa che soltanto da due anni a questa parte, nelle mie conferenze mi permetto di esordire con "la mia esperienza mi insegna?", sorride. "Ormai me lo posso permettere…sono abbastanza vecchio no?".

Un aristocratico alla Velasquez.

Sessantasei anni, spagnolo dell’Andalusia, affascinante come un aristocratico dipinto da Velazquez, Tejera de Meer è uno strizzacervelli con la rara sensibilità d’un sacerdote che anche uno spirito laico eleggerebbe a confessore. E l’umiltà d’uno scienziato che ha fatto del sabotaggio ai luoghi comuni, il motore di un’attività, preceduta da dieci anni passati ad insegnare psicologia clinica all’Università salesiana e a scrivere saggi su saggi.

"Ho mollato – dice –perché volevo sentirmi libero e dedicarmi ai miei piccoli pazienti e alle mie conferenze in giro per l’Europa.".

E’ arrivato a Budoni, qualche giorno fa , invitato dall’ Assessorato alla Cultura del Comune e dall’Istituto Comprensivo, per due giorni di incontri su "Il bullismo :cos’è e perché".

Convegno assediato da genitori e insegnanti desiderosi di capire meglio, e di riflettere su un fenomeno in spaventosa crescita : quello delle violenze, delle prepotenze tra bambini.

Altro che casi isolati. Dalle più recenti ricerche risulta che in Italia ben il 41 per cento dei bimbi delle scuole elementari e il 30 per cento dei ragazzi delle medie, sono stati vittime di violenze e aggressioni da parte dei compagni bulli che agiscono sempre coperti dall’omertà del gruppo.

Perché oggi è in costante aumento il numero dei casi di bullismo?

"E’ difficile individuare un’unica causa. Direi però che aumenta la violenza tra i ragazzi perché è aumentato il clima generale di violenza in questa società. L’aria che respirano i nostri ragazzi è fatta di intolleranza, individualismo, di indifferenza ed egoismo.".

La televisione fa la sua parte? Pare che qualsiasi ragazzo europeo di 13 anni abbia già assistito, via video, a diecimila omicidi…

"Non credo si possano addossare certe responsabilità alla televisione. Oramai è una frase fatta: "Ah! Questi programmi violenti che rovinano i ragazzi…"

Stupidaggini, dico io. Non è che si diventa violenti perché si vede televisione violenta; piuttosto si vede televisione violenta perché nell’ambiente c’è la violenza, perché quelle sono ormai le dinamiche di non comunicazione che hanno preso piede nella nostra società.".

A questo punto non serve neanche colpevolizzare i genitori.

"Proprio così. Anche se poi proprio loro hanno una responsabilità ogni volta che non si dispongono ad ascolare i figli, ogni volta che lasciano perdere l’occasione di dialogo. Il bullismo è sempre un modo per attirare l’attenzione su di sé, una reazione del bimbo al doloroso disagio del sentirsi solo e trascurato.".

Le violenze tra bimbi ci sono sempre state. Perché gli adulti sembrano accorgersi soltanto oggi del problema?

"Primo perché, oggettivamente , è un fenomeno in aumento; secondo, perché si è creato uno strano meccanismo, un’attenzione, tutta intellettuale sia chiaro, dei mass-media, del mercato della scuola, dei genitori, verso i ragazzi. Quasi che questi fossero abitanti di un pianeta lontano, da scrutare senza metterci piede, visto che, comunque, persiste, anzi dilaga, una desolante, terribile trascuratezza nei loro confronti.".

Il bullo è un bambino cattivo?

"Ma no. La cattiveria è espressione di un senso morale mancante o deficitario secondo le norme comuni. Dire cattivo significa giudicare il bambinoi secondo norme morali che non gli appartengono . Il bullo è piuttosto un bimbo aggressivo, prepotente, indisciplinato (sempre secondo le regole nostre): qualità, anche in negativo, della psiche umana. La cattiveria invece è già una condizione di tipo morale che, caso mai, si impara crescendo.".

Chi è la vittima?

"In genere è il bambino con un io più fragile, passivo e ansioso. Poi ci sono le cosidette vittime provocatrici, quelle che, per una qualche caratteristica personale , hanno difficoltà ad inserirsi nel gruppo : può essere il caso della bimba goffa che perde la palla non appena la prende in mano, o il caso del bambino irrequieto che tende ad essere offensivo.".

Perché il gruppo dei ragazzi che non sono né vittime né carnefici assiste nell’indifferenza e nel silenzio al consumarsi delle violenze?

"Perché il bullo mette paura, una paura paralizzante e contagiosa. Se proviamo a chiedere a questi bambini"perché hai paura", rispondono"perché hanno paura gli altri"."

Un coetaneo puù essere percepito come più potente e forte dei propri genitori?

"Proprio così. Questa dovrebbe essere la spia più evidente della solitudine dei nostri bambini: la mancanza di fiducia nei genitori. Capita ormai sempre più spesso che quando il bimbo si apre col papà e la mamma per raccontare loro un problema, difficilmente trova ascolto e comprensione. Trova piuttosto due estranei pronti a condannare senza appello e a tranciare giudizi negativi come il sei uno stupido che viene usato più frequentemente . Tutti temiamo i giudizi degli altri, figuriamoci un bambino che si sta creando l’autostima. "Dai, parliamone…,Vediamo un po’ cosa possiamo fare…": questo dovrebbe essere l’approccio di un genitore attento e intelligente.".

Come si aiuta, concretamente, un bambino bullo?

"Cercando di stabilire una relazione con lui, a partire da qualsiasi momento. Io credo molto al rapporto vero, desiderato e voluto, in cui il bambino si senta amato. Non credo invece a quello in cui ci sono due guardie che tentano di smascherare il delinquente.".

E il bambino vittima?

"Questo è il bimbo fragile, la cui frase ricorrente è "Non sono capace…".

Ecco: occorre aiutarlo ad acquistare fiducia in se stesso…".

Facile a dirsi. E i figli dei genitori fragili?

"E’ vero che il bambino assimila inconsciamente una serie di modelli immediati, primi fra tutti quelli genitoriali e che, quindi , se il papà e la mamma sono persone fragili è più facile che il piccolo sia un bimbo fragile. Ma, vede, io penso che i figli non siano prodotto dei genitori, né nel bene, né nel male: una miriade di stimoli contribuiscono allo sviluppo del bambino e nessuno di questi può dirsi predominante.".

"Così il bambino fragile – oramai è comprovato da tante ricerche longitudinali – è quasi sempre smentitore di predizioni negative perché, alla pari di quasi tutti i bambini

- magari più sereni -, ha tante risorse dentro di sé e ,a volte, può bastare un incontro casuale con una persona, un amico, un professore, un maestro, perché tutte queste potenzialità vengano fuori. Dico davvero sa? Può bastare un incontro con una persona che il bambino prende a modello… i bimbi hanno bisogno di modelli positivi. Hanno bisogno di maestri.".

Piera Serusi

(da "L’Unione Sarda – 25 settembre 1998)

 

Manuel Tejera e Rosalba Satta

 

 

Organizzato dall’ Assessorato alla Cultura del Comune di Budoni e dall’Istituto Comprensivo di Budoni.

 

Incontro Con Manuel Tejera de Meer

Budoni 5 e 6 settembre 1997

 

Gli adolescenti e noi adulti

 

Per parlare del rapporto tra adulti e adolescenti e, in particolare, tra genitori e figli, vorrei presentarmi - senza voler essere presuntuoso- (e lo dico con una frase che un famoso analista diceva del suo maestro) come "sabotatore di luoghi comuni e di idee correnti". O, come dice Stella Chess, spero "di riuscire a mettere in questione gran parte delle idee convenzionali tramandate sugli adolescenti, "liberando i genitori , non meno degli altri addetti ai lavori, dai miti che hanno troppo a lungo avvolto nel mistero, lo sviluppo psicologico umano".

Bisogna fuggire dai pregiudizi, eliminare la "zavorra dogmatica e speculativa", fornire informazioni basate su esperienze scientifiche, su risultati di studi seri, e non lasciarsi convincere da quelle idee che circolano, frutto di generalizzazioni indebite e di pregiudizi molto radicati .

Un esempio classico di luogo comune o di idea corrente - rimandata dagli esperti negli anni 50 e ancora oggi in circolazione -: la colpevolizzazione delle madri.

Un altro esempio, un pregiudizio molto comune negli adulti, è l’idea negativa dell’adolescenza, come "età difficile", come periodo "a grande rischio", un’età che rappresenta un disagio per il solo fatto di avere 15 o 18 anni. Ma parlare di "disagio come condizione giovanile significa generalizzare un fatto che può essere vero SOLTANTO per alcuni adolescenti.".

Se potessimo analizzare fino in fondo la vita di questo o di quel determinato adolescente, potremmo forse trovare zone oscure e quelle condizioni socio-familiari che potrebbero condurci a considerarlo a rischio; però si tratterà sempre di questo o di quel determinato adolescente… e non di tutti i ragazzi che si trovano in questa fascia di età.

Perciò quando si parla di "disagio" o di "solitudine depressiva" dell’adolescente di oggi, si fa una generalizzazione come quando si pensa che ogni adolescente , per il fatto di trovarsi in questa età, sia portato alla delinquenza o all’uso di sostanze stupefacenti.

Parlando ancora di generalizzazioni, possiamo alludere a quei giudizi negativi che si danno sui genitori – non solo sulle madri - quando questi hanno un figlio che ha un comportamento deviante.

Si tende a colpevolizzare subito i genitori.

Ma si tratta di una generalizzazione; poiché i figli NON sono il prodotto dei genitori. Non sono i genitori gli unici responsabili del modo di essere e di fare dei figli .

Il principale responsabile è il ragazzo stesso.

Ognuno ha la sua personalità unica e irripetibile.

E’ stato ormai dimostrato, attraverso rivcerche scientifiche , che "il bambino ha un ruolo attivo nel proprio sviluppo e non è assolutamente una tavoletta sulla quale i genitori e gli altri incidono il suo sviluppo psicologico. Per capire il comportamento di un bambino è necessario capire le sue caratteristiche e quelle dei suoi genitori, oltre all’influenza di altri familiari e del mondo esterno.

Tutti questi fattori interagiscono a tutti i livelli di età, producendo il funzionamento mentale del bambino.

Tutti sono importanti e nessun singolo fattore può essere definito più importante di qualunque altro" (pag. 50-51 di Chess)

Dunque, sullo sviluppo di un bambino intervengono "non solo persone - come altri familiari, coetanei e insegnanti - ma anche forze come l’ambiente scolastico, con le sue richieste di apprendimento, i valori etici e morali dell’ambiente sociale, compresi i suoi pregiudizi razzisti, sessisti etc.

(Particolari esperienze imprevedibili, come la comparsa e maturazione di uno speciale talento, oppure eventi del tutto accidentali ma importanti, sono altri fatti che possono capitare nella vita di un bambino.)

E l’effetto di tutti questi altri fattori, come l’effetto delle cure genitoriali, dipenderà non solo dalle esperienze in sé, ma dalla reazione che ad esse presenta il bambino.

La stessa situazione di vita – come può essere, ad esempio, quella dei fratelli - può avere effetti diversi su bambini con diversi temperamenti, abilità o motivazioni".

Nello sviluppo umano , secondo le ultime ricerche – soprattutto dello psicologo russo Lev Vygotskij – vige il concetto di "interazionismo", che vuol dire che tutti gli attributi comportamentali di un individuo sono costantemente in interazione sia fra loro che con le occasioni, richieste e aspettative dell’ambiente.

Tornando a quel luogo comune che considera l’adolescenza come età difficile, età critica, in cui ogni ragazzo si trova con la famosa "crisi di identità", in un periodo di "tempesta e assalto", dobbiamo dire che le ultime ricerche – soprattutto quelle di Offes, Ostrov e Howard – hanno dimostrato che soltanto il 20 per cento degli adolescenti presenta disturbi emotivi in misura significativa, tanto da essere considerati difficili , .

Perché, perciò, considerare l’adolescenza età difficile se la maggioranza degli adoloscenti (l’80 per cento) trascorre questa fase senza particolari problemi?

Infatti Offes e i suoi collaboratori concludono : "Come sempre è successo quando la ricerca è stata condotta su campioni rappresentativi, i risultati dimostrano che la grande maggioranza degli adolescenti da noi studiata è serena e ben adattata.".

Alla stessa conclusione arrivano Chess e Thomas.

Come spiegare, dunque, questa idea convenzionale, questo pregiudizio sull’adolescenza come età difficile?

Sembra che l’inizio di questa visione catastrofica dell’adolescenza si trovi nell’opera di Stamley Hall, all’inizio del secolo 1904, in quella che è stata chiamata "teoria romantica".

"Gli anni dell’adolescenza – diceva Stanley – sono emotivamente instabili e patetici. C’è un impulso naturale a vivere stati ardenti ed entusiastici, e tutto il periodo è caratterizzato da emotività".

A confermare questa teoria è servita la psicoanalisi che considera l’adolescenza un periodo di instabilità emotiva, nel quale sarebbe addirittura anormale mantenere uno stabile equilibrio psicologico. Ma il lavoro di Stanley Hall non corrisponde a risultati di ricerche positive; piuttosto è una costruzione speculativa personale nel contesto culturale du un romanticismo esasperato -e in base a una esperienza molto limitata- ,

e le conclusione della psicoanalisi sono il risultato di casi clinici, di situazioni di disagio personale allargate alla popolazionre generale.

"Gli analisti , in pratica , partono – come dicono Chess e Thomas- dal presupposto che le caratteristiche patologiche di una popolazione di malati debbano valere anche per indididui sani e normali.".

E hanno anche detto che l’immagine distorta e patologica dell’adolescente tracciata da tanti psicoanalisti, anche autorevoli, è nata da "dati relativi ad adolescenti e giovani con disturbi psicologici, generalizzandoli agli adolescenti normali, senza verificare la validità di questa conclusione attraverso lo studio di gruppi mormali.".

Perciò alcuni autori come Coleman concludono i vasti studi fatti sull’adolescenza dicendo che "gli anni dell’adolescenza sono molto più stabili e tranquilli di quanto si sia ritenuto in passato".

E un grande nome nella ricerca positiva sull’adolescenza – Rutter - dopo aver analizzato asaurientemrente e sistematicamente il panorama deella letteratura scientifica sull’argomento, dice:

"E’ anche evidente che l’adolescenza normale non è caratterizzata da crisi, tensione e disturbi. La maggior parte dei ragazzi attraversa questi anni senza problemi emotivi o comportamenti rilevanti. E’ vero che ci sono prove da superare, adattamenti da compiere, e tensioni da affrontare, ma non tutti questi problemi si presentano insieme e la maggioranza degli adolescenti vi fa fronte senza eccessiva difficoltà"(pag.288)

Probabilmente se oggi , noi adulti che abbiamo contatto con i giovani, li sentiamo "pericolosi", "difficili", "instabili" o "aggressivi" …sarà dovuto alla conoscenza di qualcuno in particolare… in cui abbiamo visto un comportamento criticabile secondo il nostro criterio, e lo abbiamo generalizzato a tutta la categoria ; o abbiamo ricevuto l’influsso di quella letteratura catastrofica; o siamo stati contagiati da qualche persona, magari esperta, che si riferisce a ideologie sorpassate; o abbiamo respirato il clima generale di sospetto e di attenzione di fronte al comportamento dei giovani.

La valutazione negativa che noi diamo dei giovani contribuisce a creare quella distanza che molti chiamano "gap generazionale" o "conflitto generazionale" o, con espressione ancora più drammatica, "abisso generazionale". Ma, come vedremo, anche il contrasto tra adulti e adolescenti è un mito che corrisponde a un’idea corrente, a un luogo comune che, appunto, non si può generalizzare.

L’abisso generazionale corrisponde al seguente concetto : gli adolescenti sviluppano idee, valori e modi di vivere in contrasto netto con le idee, i valori e gli stili di vita dei genitori e degli adulti in genere, per cui la comunicazione tra le generazioni entra in crisi e si crea un abisso incolmabile.

E’ vero che questo può succedere, che può succedere con una certa frequenza, dovuto a fatti e circostanze che esamineremo meglio domani, ma ciò non vuol dire che il così detto "conflitto generazionale" sia una situazione normale, abituale, naturale, nella realtà socio-cultuale del nostro mondo; che debba avvenire per forza.

Alcune ricerche moderne hanno messo in evidenza che il cosìdetto "conflitto" non è così frequente e così grave come si credeva.

"E’ vero – dicono Chess e Thomas - che nelle famiglie dove le richeste e le aspettative dei genitori erano eccessivamente stressanti…con i risultanti problemi di comportamento dei figli, i rapporti coi genitori erano di solito freddi e distaccati o apertamente antagonistici. Ma questo allontanamento quasi sempre era cominciato PRIMA dell’adolescenza, talvolta già in età prescolastica.".

Non si trattava di un comportamento caratteristico della fase adolescenziale. Possiamo dire che , se già prima dell’adolescenza, i rapporti tra genitori e figli erano tesi, non si poteva aspettare che migliorassero proprio durante una fase in cui il compito evolutivo del distacco e dell’autonomia acquista particolare rilievo.

Al di fuori dei casi in cui esisteva già un problema, "i soggetti che avevano avuto un forte legame positivo coi genitori da bambini, cioè la maggioranza dei ragazzi , hanno mantenuto questo stesso rapporto positivo pure nell’adolescenza, anche se si cercava di affermare la propria autonomia e indipendenza in maniera ragionevole e NON violenta.

In pochi casi il conflitto e la ribellione violenta sono stato così evidenti da procurare una rottura , a volte definitiva.

Ma si tratta di pochi casi .

In altri casi "i ragazzi avvertivano un atteggiamento distaccato da parte dei genitori e dichiaravano esplicitamente la mancanza di un maggior dialogo e sostegno emotivo.".

Non si creda, dunque, che i ragazzi , arrivati a una certa età, non vogliano saperne più del contatto con i grandi .

Se, in alcuni casi , ciò succede, sarà dovuto – come vedremo domani – a situazioni particolari non addebitabili , nella maggioranza dei casi , alla volontà del giovane.

I casi di autentica barriera tra adulti e adolescenti sono minoranza.

I dati di molto autori coincidono, anche in riferimento a diverse culture. Si trova dappertutto una continuità fra generazioni . La maggior parte degli adolescenti nutre , profondamente , valori simili a quelli degli adulti anche se, in qualche momento, possono apparire ribelli e contestatori.

E ciò si vede quando, diventando adulti e avendo figli, tendono a riprodurre gli stessi metodi educativi che usavano i propri genitori, anche se, tempo prima , erano considerati metodi sbagliati e anche se , pure adesso, in un freddo, razionale e onesto confronto con se stessi, continuano ad essere considerati sbagliati. Oscure forze emozionali tendono a riprodurre ciò che si è vissuto, anche se razionalmente viene giudicato negativo.

E’ importante considerare che certe forme di ribellione degli adolescenti alle norme familiari, non sono segno di un conflitto generazionale come se questo – il conflitto generazionale - fosse un momento ineluttabile dello sviluppo. Dice saggiamente uno studioso di problemi giovanili (Peter Blos) : "Le azioni di rivolta e d’indipendenza , dalla disubbidienza civile alla libertà sesssuale, spesso appaiono , ad una più attenta osservazione, come dovute a rotture violente dei rapporti di dipendenza piuttosto che a elaborazioni conflittuali.".

I figli, crescendo, debbono distaccarsi dai hgenitori per vivere ognuno la propria vita, con nuove scelte libere (tra cui la scelta del patner), nell’autonomia della propria autogestione.

Questo distacco dovrebbe essere appoggiato e stimolato dai genitori, con un lavoro, degli adulti, su loro stessi, per rinunciare al ruolo possessivo e protettivo nei confronti di quei ragazzi che non sono più bambini bisognosi.

Ma il distacco deve essere fatto gradualmente , senza violenza , senza creare barriere che possono durare per sempre, senza promuovere le distanze in modo eccessivo fino al punto di contribuire alla creazione di quell’abisso che non dovrebbe costituire una tappa normale dello sviluppo.

Separarsi , si, ma rimanendo in contatto, dialogando, conoscendosi…

Il fatto di scaricare tutte le colpe sulle madri viene chiamato da Chess e Thomas un "diffuso dogma psichiatrico".

Esiste una ideologia che colpevolizza la madre, a volte estesa anche ai padri , di tutto ciò che di negativo possono fare i figli.

"Alle madri veniva addebitata qualunque cosa non andasse per il verso giusto nei figli, si trattasse di un semplice disordine del comportamento, difficoltà scolastiche, condotta antisociale in adolescenza, turbe psichiatriche le più varie, numerose malattie fisiche.

Si inventavano addiritura termini nuovi.

C’era la "madre schizofrenogena" che inconsciamente esercitava un’influenza così maligna da susdcitare nel figlio una patologia schizofrenica.

C’era il "doppio legame" , nel quale la madre inviava al bambino messaggi contradditori disorientandolo in modo tale da indurre gravi turbe mentali.

C’erano i "genitori frigorifero", talmente freddi e insensibili da provocare nel bambino l’autismo…

Un centro all’avanguardia nel trattamento dei bambini affetti da grave asma inventò la "parentectomia", la necessaria separazione del bambino dalle figure parentali, che erano la causa della malattia.".

Tutti questi pareri erano influenzati dalla corrente socio-culturale che considerava la figura materna la più importante nella vita di un bambino.

Poi si è dimostrato che l’amore materno è "un amore in più" e che ciò che il bambino è non dipende solo dalla madre; che l’amore della madre non è disinteressato, perché ogni madre aspetta una risposta dai figli.

Molte ricerche hanno dimostrato che "la maggior parte delle mamme, come la maggior parte dei genitori, era formata da persone benintenzionate che si sforzavano di essere buoni genitori ed erano ostacolate dall’idea radicata che tutto quanto non andava fosse colpa loro".

Questo fattore – il senso di colpa – poteva contribuire ,e contribuisce ancora, a quegli atteggiamenti di eccessiva protezione delle madtri sui figli che fa più difficilie il distacco.. la naturale separazione nella ricerca di una necessaria e salutare autonomia.

 

 

Manuel Tejera e Rosalba Satta

 

 

 

Secondo incontro con Manuel Tejera De Meer

Budoni 06-09-1997

 

Adolescenti e genitori

Verso il dialogo

 

Partiamo da un fatto: quando i figli arrivano all’età adolescenziale è frequente che appaiano contrasti con i genitori ,ed è risaputo che il dialogo risulta difficile , quando non sparisce del tutto.

Alla base di questa specie di incomprensione tra genitori e figli adolescenti sta una specie di paura che i genitori hanno coltivato man mano che il figlio o la figlia crescevano.

L’abbiamo chiamata paura, ma forse è preferibile chiamarla "prevenzione" o "preoccupazione ansiosa": molti genitori sono preoccupati rispetto ai cambiamenti che prevedono accadranno quando i figli attraverseranno questo periodo definito "difficile" o , con un eufemismo, "delicato".

Sono prevenuti.

Hanno un certo timore che vi sia un momento in cui i figli "aprano le ostilità".

Ma questa apprensione non ha, come abbiamo detto ieri, una base scientifica su cui appoggiarsi.

Abbiamo visto, ieri, che tutte quelle idee circa l’adolescenza come "età ingrata" o come "periodo di crisi" per tutti i ragazzi, sono il risultato della generalizzazione di alcuni casi ed è diventato un grosso pregiudizio che alimenta proprio l’ansia dei genitori,quando vedono che i figli si avvicinano a quella fase dello sviluppo.

La diffusione di questo pregiudizio , come di quell’altro che crede i genitori - e la madre in particolare - unici responsabili del modo di essere e di fare del figlio, non fa altro che creare tensioni e autocolpevolizzazioni, con la conseguenza di dover "riparare" attraverso norme disciplinari e atteggiamenti severi , che non fanno altro che aumentare le tensioni e provocare una distanza che finisce, alcune volte, in rottura…

Questa distanza – che diventa o può diventare "distanza emotiva", ossia interruzione del legame affettivo – viene a volte "giustificata" con l’altra idea pregiudiziale che è diventata pure – come abbiamo visto ieri – un luogo comune e cioè: nello sviluppo dei figli si arriva per forza alla creazione di contrasti che possono essere "normali", che appartengono allo sviluppo giacché sono generazioni diverse ed esiste il conflitto generazionale come evento evoltivo.

Questa idea, come i precedenti pregiudizi, non ha trovato riscontro nella ricerca positiva.

I dati scientifici parlano, dunque, di pregiudizi, di generalizzazioni, di luoghi comuni.

Ma qualche volta qualche autore sembra che dia ragionre a questo parere corrente.

E ciò serve a confermare questi poveri genitori che si rovinano la vita pensando a ciò che succederà quando il figlio o la figlia compiranno 15 anni, o 16 se a 15 non è successo niente, o a 17 se a 16 tutto è stato tranquillo e così fino al momento della crisi…se avviene.

Uno psicoanalista famoso – Peter Bloz- arriva a dire, facendosi eco di altri psicoanalist – Anna Freud ed Erikson – che "solo attraverso il conflitto si può raggiungere la maturità".

Però gli psicoanalisti – lo abbiamo detto ieri – arrivano alle loro conclusioni attraverso la generalizzazione indebita di casi clinici.

Dobbiamo fidarci di più degli studi positivi, delle ricerche con campioni rappresentativi . E la conclusione di queste ricerche depone per la possibilità, la positività e la fattibilità di uno sviluppo armonioso, e di una continuità di rapporto sereno tra genitori e figli durante lo sviluppo.

Si cresce meglio – e perciò si matura meglio- nella armonia delle relazioni, in un clima sereno e gioioso. Questo non vuol dire che i figli debbano accettare e fare proprie tutte le idee dei genitori. Crescendo, ogni ragazzo si crea una mentalità e un corredo di valori che non sempre coicide con lei dee e i valori dei genitori.

Si può parlare, senza offendersi, si può creare un dialogo costruttivo non basato sul "dovere" genitoriale di imporre le proprie ideologie, ma basato sulla fiducia e il rispetto, sapendosi ascoltare…

Scendendo al terreno pratico, vorrei trattenermi adesso su quelle condizioni, da ambedue le parti – genitori e figli - , che fanno difficile il dialogo e su quelle altre che lo facilitano.

Situazioni e atteggiamenti che fanno difficile il dialogo.

Da parte dei genitori.

Forse la prima cosa che rende difficile l’avvicinamento ai figli adolescenti è il grosso peso che si da ai pregiudizi di cui abbiamo parlato fino adesso.

Poi c’è un atteggiamento , in molti genitori, che io chiamo "identificazione esagerata con il proprio ruolo".

Queste persone, prima di essere, sentirsi persone , si sentono genitori.

Ed essere genitori, esagerando il ruolo, significa pensare e fare tutto in funzione soltanto dei figli.

Ma questi genitori, il più delle volte, vivono questo ruolo come un continuo dare consigli, guidare, imporre mete, chiedere confidenza ("devi dire tutto alla mamma"), imporre regole di comportamento per tutto, per tutte le situazioni che possono presentarsi.

Ricordo di aver letto, quest’estate , nell’ autobiografia di un famoso psichiatra spagnolo – Castilla del Pino –questo episodio : " Quando una volta – avevo cinque o sei anni – sono arrivato a casa piangendo perché avevo ricevuto uno schiaffo da un altro bambino più grande, mi prese per mano ( fa riferimento al padre) , mi fece tornare dove stava il bambino, si nascose e assistette alla scena a cui mi obbligava ad andare direttamente verso il bambino e dargli un pugno.".

L’autore finisce dicendo che quella azione a cui era stato obbligato non gli tolse la paura, né la convinzione di uscire sempre perdente nei bisticci tra bambini, ma una cosa imparò: da allora divenne meno disposto a raccontare le sue cose ai genitori.

Un altro elemento di difficoltà nel rapporto genitori-figli adolescenti è l’esercizio inadeguato del potere.

Alcuni genitori tendono a sottolineare le condizioni di disuguaglianza : i ragazzi sono subalterni, dipendenti. "Il tuo dovere è ubbidire".

I genitori sono quelli che hanno il potere.

Esiste una gerarchia, e per conservarla, certi genitori amano salire sul piedistallo. Pretendono di essere riveriti, quasi venerati .

Per loro essere rispettati vuol dire essere "adorati". Seduti sul loro trono, impartiscono leggi, norme che devono essere eseguite senza discussioni.

Ricordo sempre le parole di Kafka sull’atteggiamento del padre, nella celebre "carta al padre":

"Dalla tua sedia a dondolo governavi il mondo. La tua opinione era giusta, tutte le altre erano folli, esagerate, pazze, anormali. E la tua fiducia in te stesso era tale che non avevi neppure bisogno di essere coerente, senza per questo smettere di avere ragione. Poteva anche accadere che tu , su un certo argomento , non avessi alcuna opinione, e quindi tutte le opinioni possibili in proposito dovevano essere sbagliate, senza eccezione… tu eri avvolto per me dall’enigma di tutti i tiranni, il cui diritto è fondato sulla loro persona e non sul pensiero.".

Risentendo queste parole di Kafka, mi vengono in mente alcuni commenti che io scrissi qualche tempo fa : " Che tipo di comunicazione può esistere tra un padre così e un figlio?

Non può arrivare ad una vera comunicazione chi fa tentativi di imporsi per il suo ruolo e non per le sue opinioni, chi si sforza di vincere e non di convincere, chi comanda pensando che il suddito – anche se è il figlio – abbia un solo dovere : obbedire.

Di fronte a un genitore così, come si può permettere un adolescente di manifestare un’opinione, di contraddirlo, di scherzare…tutte componenti di un dialogo sincero e sereno?

Un’ altro modo che può utilizzare un genitore peri mettere difficoltà al dialogo col figlio adolescente consiste nell’apparire competente in tutti i campi, ma soprattutto nella gestione del figlio.

Il senso di competenza assoluta e di autosufficienza totale contribuisce a creare nel figlio un senso di insufficienza. Un genitore così si manifesterà capace di "gestire" i propri figli nel "migliore" dei modi, manipolarli e condurli nella strada scelta da lui . Non si preoccuperà nemmeno di sapere quali siano le esigenze e i bisogni dei figli. Sono loro – i genitori – che decidono quello che i figli vogliono. "So io quello che ti conviene".

Tutte le caratteristiche del genitore che rifiuta il vero dialogo con i figli si possono ridurre allo spirito autoritario e dispotico, mascherato qualche volta di spirito democratico, di permessività, di apertura mentale.

In molti genitori esiste il timore di essere "scavalcati" nel loro ruolo, se cedono soltanto un po’ del loro potere, se danno fiducia ai figli. Si teme di perdere autorità e prestigio.

Si può cadere nella vecchia paura di non saper educare. E perciò si tende a creare norme, a indottrinare, a dare consigli in continuazione.

E non si ascolta .

Non si ascoltano le richieste, abitualmente implicite, dei giovani.

Non si concede facilmente la parola a loro. Si preferisce dettare sentenze, stabilire regole di comportamento, sottolineare divieti, e minacce con punizioni.

La cosa più incomprensibile, a mio parere, è che dopo tante minacce e tanti ricatti, dopo l’esecuzione di castighi "salutari" ed "esemplari", pur non vedendosi nessun risultato, si continui a minacciare e punire.

Anzi, il risultato di tante regole e di tanti castighi, è esattamente il contrario di ciò che si voleva ottenere, e cioè si crea più distanza nella relazione, e qualche volta si romper per sempre il dialogo. In questa atmosfera di tensione, si arriva a volte al paradosso di pretendere rispetto e fiducia quando è stato proprio l’adulto a non dare fiducia al giovane.

Ci vengono in mente le idee – che abbiamo fatto nostre in più di un’occasione – di una grande analista, Alice Miller, quando dice che educare non significa stabilire regole di buon comportamento, né prporre, né suggerire, né guidare.

Educare significa trasmettere fiducia e rispetto.

I genitori che riescono ad avere rispetto per se stessi e per i figli, non avranno bisogno di insegnare loro il rispetto : il figlio non potrà far altro che prendere sul serio se stesso e il suo prossimo.

E quando attraverserà il periodo adolescenziale avrà strutturato, almeno in parte, dentro se stesso quel rispetto e quella fiducia verso se stesso e verso gli altri che costituiscono le regole d’oro per una serena convivenza.

Il vero insegnamento è quello che scaturisce dalla nostra vita.

Si tratta di vivere, di essere, di sentire, e non tanto di dire, di fare e, tanto meno, di apparire.

Un genitore, ad esempio, può sforzarsi per apparire disponibile al dialogo con un figlio adolescente, ma sentire , invece, nel suo profondo - quando fa al figlio l’invito a parlare - , sentimenti di rifiuto, di rigetto, di inspiegabile antipatia, o può dimostrare atteggiamenti autoritari e dispotici mascherati di completa disponibilità e di spirito democratico.

I ragazzi, però, spesso capiscono ciò che sta dietro la maschera.

Situazioni e atteggiamenti che fanno difficile il dialogo

Da parte dei ragazzi

Se alcune volte non si arriva a un dialogo vero, sincero e profondo tra genitori e figli adolescenti, può dipendere anche da atteggiamenti e dinamiche interne agli adolescenti.

Anche loro – i ragazzi – si sentono bombardati da pregiudizi diffusi all’interno della sottocultura adolescieziale, che parlano di genitori "matusa" o "jurasik", fuori dal tempo , privi di "ogni capacità d’intuire le motivazioni interne dei loro figli e di allacciare con loro un discorso significativo". (Bols)

Spesso il figlio o la figlia adolescenti non si azzardano ad aprirsi con i genitori perché temono il giudizio immediato, la rappresaglia, la punizione.

Temono l’incomprensione… forse sentita più di una volta negli anni precedenti. Temono la predica, il divieto. La condanna. Non hanno saputo, quando sono stati capaci di elaborazioni mentali personali, usare anche loro l’empatia e la comprensione nei confronti dei genitori; forse non sono riusciti a conoscere questo papà e questa mamma che sentono spesso trincerati dietro il loro ruolo e le loro paure.

Ciò che facilita il dialogo.

Nei contatti tra adolescenti e genitori è essenziale conoscersi.

E’ la base di ogni relazione autentica .

Per conoscersi bisogna lasciare da parte i pregiudizi. Ma, allo stesso tempo, per superare i pregiudizi- in quello che sembra un gioco di parole – bisogna conoscersi bene : è quella che viene chiamata "conoscenza emotiva" .

Cosa significa conoscersi emotivamente?

Significa, in poche parole , non accontentarsi dei dati anagrafici, non rimanere soddisfatti, quando si parla con l’altro , di semplici informazioni asettiche, senza approfondire ciò che si sente dentro.

Significa immedesimarsi con ciò che l’altro comunica e cercare di capire anche ciò che non si dice, il sottinteso. Evitando, ovviamente, di interpretare soggettivamente ogni discorso.

Significa adeguarsi, in un lampo, alla situazione personale dell’altro, capire le sue angosce o la sua gioia, prendere contatto in modo coinvolgente con il suo problema, e vivere questo problema come se fosse proprio.

Significa mettersi alla pari, e non come giudici o confessori.

Conoscersi emotivamente significa scambiarsi emozioni e sensazioni, paure e ansie, gioie e sofferenze, e sentimenti… e non solo informazioni.

Dice, con la sua solita chiarezza Alice Miller : "Io credo di poter capire un altro essere umano solo se sono in grado di ascoltare ciò che egli dice e di condividerlo empaticamente, senza , di fronte a lui, proteggermi o trincerarmi dietro a teorie".

"Ascoltare ciò che egli dice e condividerlo empaticamente , anche se quello che dice puà colpire le nostre fibre emotive, anche se ciò che egli dice rappresenta una confessione di qualcosa che per lui è forte o difficile da esprimere.

In questi casi sarebbe bello poter arrivare a dirgli quello che diceva ai ragazzi un grande educatore (Don Bosco) - : " Preferisco la tua sincerità al crederti innocente".

Quando un adolescente, ad esempio, risponde sgarbatamente a un genitore che gentilmente lo invita a fare qualcosa, è possibile che nella mente del genitore, appaiano idee pregiudiziali su questa "età difficile".

E’ possibile che si affaccino al suo pensiero le vecchie idee sull’importanza di dimostrare l’autorità e di difendere la gerarchia e il rispetto che si "deve" a un padre e a una madre.

Ma trincerarsi dietro le teorie , senza far niente per capire il giovane empaticamente, contribuisce alla creazione di distanze e al rifiuto del dialogo.

Quando nell’adulto l’intelletto non raggiunge la sfera emotiva e si tenta solo di "capire" il gesto del ragazzo freddamente, in rapporto a norme relazionali più o meno convenzionali, si corre il rischio di interrompere il contatto, di creare un vuoto. Forse allora si può aprire l’abisso.

Conclusione.

Recentemente , leggendo la rivista "Psicologia contemporanea" sono rimasto colpito da una frase del genetista Alberto Piazza. Secondo questo studioso "non è la clonazione biologica quella di cui si deve aver paura ( i geni non sono tutto, è l’ambiente in cui siamo allevati che ci trasforma in persone), ma è quella culturale.

Hitler è esisistito – continua a dire il genetista – perché ha avuto la capacità di clonare la sua cultura.".

Sul rapporto adulti-giovani , noi adulti rischiamo di clonare la cultura del contrasto, della rabbia reciproca, del gap generazionale, come se il conflitto tra mondo adulto e mondo giovane si dovesse riprodurre, promuovere, perché è così- secondo i fautori della lotta tra le generazioni - che i giovani vengono allenati ad aprirsi la strada nella vita; è così che ci si prepara agli altri combattimenti della vita che la vita stessa presenterà loro.

Come se la vita fosse solo lotta, bisogno violento di affermarsi, grinta aggressiva e competitiva per la promozione e per il potere.

Non si può essere , dunque, d’accordo con chi afferma che la maturità si può raggiungere solo attraverso il conflitto e la sofferenza.

Sono fermamente convinto – e qui mi rifaccio alla mia ormai lunga esperienza – che la maturità e la crescita verso di essa, si possono ottenere meglio nella continua, soddisfacente relazione tra genitori e figli, tra adulti e giovani, nell’armonia tra generazioni diverse che portano avanti un programma comune : vivere conoscendosi, capendosi, rispettandosi e amandosi.

Cerchiamo di clonare una cultura dove il rapporto adulti-giovani si basi sul reciproco rispetto e sulla reciproca fiducia!

O meglio : cerchiamo di trasmettere ai nostri figli – senza bisogno di procedimenti artificiali – una cultura basata sulla solidarietà, sul dialogo…sull’amore.

Cerchiamo noi adulti – che abbiamo il coltello dalla parte del manico – di capire il momento che attraversano i nostri figli. Veniamo incontro , in un dialogo sincero, alle loro esigenze più profonde, alle loro giuste richieste di ascolto e condivisione.

Che non succeda che, all’ora di cogliere i frutti di ciò che abbiamo dato loro, possano rammaricarsi e lamentarsi dicendo, con tristezza, quello che scrisse un grande uomo:

Volevo il latte e ho ricevuto il biberon.

Volevo dei genitori e ho ricevuto un giocattolo.

Volevo parlare e ho ricevuto un libro.

Volevo imparare e ho ricevuto pagelle.

Volevo pensare e ho ricevuto sapere.

Volevo una visione generale e ho ricevuto un’ideuzza.

Volevo essere libero e ho ricevuto la disciplina.

Volevo amare e ho ricevuto la morale.

Volevo la professione e ho ricevuto un posto.

Volevo la felicità e ho ricevuto denaro.

Volevo la libertà e ho ricevuto un’automobile.

Volevo un senso e ho ricevuto una carriera.

Volevo speranza e ho ricevuto paura.

Volevo cambiare e ho ricevuto compassione.".

 

(Hanj Kwog)

 

Che non succeda che dalla bocca di noi adulti , nei momenti di sconforto( nel rapporto con i nostri figli adolescenti) possano uscire frasi come questa :

"Volevo un figlio affettuoso, una figlia affettuosa e ho ricevuto un mostro…".

"Ho generato una serpe" – mi disse tanti anni addietro una signora davanti a sua figlia adolescente.

Dopo vent’anni quella signora ha dimenticato quella scena e duranti gli anni ha cercato di dimostrare alla figlia , ormai sposata e con figli, che quello era stato uno sfogo.

Ma la figlia conserva ancora quella frase incisa nel suo cuore…